Ieri sera ho scapisciato forte. Al Palazzo Delle Esposizioni sito in Via Nazionale a Roma davano (in pellicola restaurato) Straight Shooting, primo lungometraggio del maestro John Ford, film muto del 1917. Presenta il film Guy Borlée (coordinatore del festival "Il Cinema Ritrovato"). Accompagnamento dal vivo al pianoforte del Maestro Antonio Coppola, considerato uno dei principali specialisti nell'improvvisazione musicale e nell'esecuzione e creazione di colonne sonore per il cinema muto. La sala era stracolma, ingresso gratuito su prenotazione, ti potevi prenotare on-line a partire dalle ore 09:00 di lunedì. Alle 09:30 i 300 posti erano esauriti. Tuttavia la mia teoria secondo la quale molti sono i capiscioni (quelli che si atteggiano come colti e ricercati) e pochi sono i capish, quelli che effettivamente ne sanno, è stata confermata. Un buon 80% ieri erano capiscioni, quindi finti capish, facevano finta di saperne a pacchi ma erano, nella migliore delle ipotesi, poco più che sterili eruditi.
Quando ad Orson Welles chiesero di nominare tre registi cinematografici importanti egli rispose: John Ford, John Ford, John Ford.
John Ford (1894-1973), tredicesimo di quattordici figli, nasce a Portland, Maine, da genitori immigrati irlandesi che lo battezzarono con il nome gaelico di Sean Aloysius O’Fearna (O’Fienne o O’Finney, nella pronuncia americana della trascrizione anglicizzata). Il primo a cambiare nome in Ford è suo fratello maggiore Francis, il primo dei due ad aprirsi una strada nell’industria del cinema, dove lavora nei panni di attore, sceneggiatore e regista. John lo raggiunge più tardi, ma senza molta convinzione. Quando nel 1917, poco più che ventenne, realizza il suo primo lungometraggio per la Universal, John Ford (ancora accreditato come Jack, e così sarà fino al 1923), ha già fatto gavetta come tuttofare, stunt-man, attore, aiuto-regista (del fratello Francis, di Allan Dwan e di altri) e infine sceneggiatore e regista di un pugno di cortometraggi, tutti western e tutti usciti in quello stesso anno: The Tornado e The Scrapper, in cui lui stesso interpreta la parte del protagonista; e poi The Soul Herder e Cheyenne’s Pal, con Harry Carey. Tre anni prima fece la comparsa nei panni di un membro del Ku Klux Klan a cavallo nel film che avrebbe cambiato definitivamente il cinema americano, The Birth of a Nation (Nascita di una nazione, 1915), a proposito del quale racconta: «Cavalcavo con una mano sola, e con l’altra mi tenevo su il cappuccio per poterci vedere, perché quel maledetto affare mi scivolava sempre sugli occhiali». Durante quella scena rimase ferito sbattendo contro un ramo e passò i giorni successivi a guardare Griffith dirigere, imparando tutto quello che c’era da imparare.
Com’è come non è il nostro si ritrova, dunque, a soli 23 anni a dirigere il suo primo film (muto). Ne girerà una sessantina di film (muti) ma ad oggi solo una ventina sono ancora reperibili, gli altri andarono persi a causa di un incendio negli studi Universal nel 1922.
Straight Shooting, 68 minuti. Una banda di mandriani prepotenti vessa i poveri coloni, negandogli cibo e acqua. Per eliminare definitivamente I Sims, una famiglia di coloni composta dal vecchio e dai suoi due giovani figli, un ragazzo e una ragazza, assoldano un ricercato, Cheyenne Harry, interpretato da Harry Carey. Ora è d’uopo soffermarsi due minuti su quest’attore. Sono rimasto a dir poco sbalordito nell’aver rilevato la naturalezza della recitazione (muta) di questo formidabile artista. Di fronte ad una tale prova ti vien da dire moderno, contemporaneo ma poi realizzo che dire ciò non vuol dire niente. E allora mi viene in mente un altro aggettivo: classico, nel senso di intramontabile, nel senso di punto di riferimento. Cheyenne incarna il malvivente con una coscienza, l’eroe tormentato, avrà la sua evoluzione e rivoluzione. Cinico, prepotente, ubriacone, risoluto e senza scrupoli ma con un suo codice “non sparo mai alle spalle”. Questo personaggio diventerà un punto di riferimento per gli attori western a venire, su tutti John Wayne, che ne raccolse l’eredità. Eppure questa disinvoltura, questa spigliatezza, è una roba che ho visto pochissime volte in un attore e sì che di film ne ho visti tanti. Mentre (quasi) tutti gli altri recitano “da copione” ovvero con quell’esagerata enfasi e teatralità nei gesti e nelle espressioni facciali, il nostro, appare estremamente rilassato, plastico, centrato. Difficile rendere il concetto a parole, andrebbe visto, ovviamente, ma l’aggettivo che viene in mio aiuto è “naturale”. La naturalezza e la disinvoltura di Carey è stupefacente con buona pace dei metodi Stravinski e il diavolo se lo porti. Del resto quando un giorno chiesero ad Anna Magnani come facesse ad essere così naturale, spontanea e vera, ella rispose: “faccio finta!”.
Ma insomma com’è sto film? È la seconda volta (la prima fu “Giovanna D’Arco” di Dreyer) che vado a vedere un film muto accompagnato al piano dal maestro Coppola ed entrambe le volte (prima della visione) mi son detto “ma dove cazzo vai? Ma sai che palle? Un film muto col tipo che suona il piano? Ma che ce vado a ‘ffa’??”. Entrambe le volte però, dopo la visione, mi son dovuto ricredere di brutto, Intanto perché i film erano straordinari e poi perché Coppola accompagna da dio. Mai invasivo, mai eccessivo ma eclettico, con piacevoli e costanti variazioni su un tema di base che segue l’andamento della pellicola. Oh beh spiegar la musica a parole è ancor più arduo che spiegar la recitazione ma tant’è. Insomma il connubio tra un film capolamuto del passato ed un grande pianista che accompagna improvvisando, è stato eccezionale, magnifico, superbo.
Il film dicevamo. Storia lineare, senza fronzoli, didascalie coi dialoghi ogni 5minuti quando va bene, dialoghi tagliati con l’accetta: “Per uccidere degli assassini ci vogliono altri assassini. Andrò a chiamare Black Eye e la sua banda alla Valle Del Diavolo!”. Recitazione sopra le righe, ma diciamolo erano attori straordinari, gente del mestiere, insomma non erano come tanti oggi figli_di o che ce vò?. La fotografia sbarellava spesso, passando con non-chalance dal bianco e nero classico al virato seppia o azzurrino per le scene in notturna ma fa parte del pacchetto “film di CENTO-OTTO anni fa”. Il discorso cambia di brutto però quando passiamo alla tecnica registica, al montaggio, al taglio delle inquadrature, alle innovazioni che il giovane Ford mise in campo, dalle inquadrature dal basso o dall’alto al campo e contro-campo fino ad arrivare alla direzione delle scene action, davvero formidabili, con gli stunt-man indiavolati che cadono da cavallo colpiti a morte, che saltano da un cavallo all’altro per aggredire il nemico, e poi l’immancabile duello, coi fucili non con la pistola, impostato in un modo completamente diverso da come lo conosciamo noi, ovvero non con i due che si scrutano da lontano, ma con i due che si avvicinano l’un l’altro in attesa di un passo falso per fare la mossa vincente.
Ora potete metterla come vi pare, a partir da quell’aggettivo stra-abusato e da me assai inviso: “datato”. Sarà, ma se poco poco vuoi fare cinema devi passare di qua, sennò rischi di mettere la panna nella carbonara per poi dire però è cremosa!
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