Bevanda calda, un buon libro e del tempo da spendere per se stesso. Provo quasi invidia per quest'uomo nella sua aurea dimensione votata alla ricreazione. Ma l'individuo in inappuntabile giacca e tweed gilet sembra non riconoscerne il privilegio. Austero, con aria a metà tra il guardingo ed il minaccioso mi scruta attraverso lo schermo, nei contorni di una istantanea che cattura un attimo di vita (stra)ordinario. Tuttavia, ogni buon artista che si rispetti deve apparire stravagante ed il musicista poeta arrivato da Denver non fa eccezione. È ancora intento a passarsi la lingua sui baffi, satollo di consensi e introiti del fulminante esordio di tre anni prima; ma il tempo passa e le foglie d'alloro seccano e lui, padre della "regina di Danimarca", non pensata affatto di abdicare al trono, così ritorna in superficie nel 2013 con i suoi spettri da esorcizzare, i racconti da borderline, i disagi, la solitudine di "cento miliardi di naufraghi" come direbbe qualcuno e lo fa proprio come lui sa fare. Forse le gestazioni le ha avute proprio su quel tavolo sorseggiando un buon numero di bevande calde, ma questo non è assolutamente rilevante.
Importante è invece la tortuosa via percorsa da Grant, colma di ostacoli e contrattempi, poco illuminata per attirare i distratti ascoltatori che di rado si avventurano oltre il fascio di luce. Così il Nostro, i suoi Czars e le carezza-anime seminate in sei o poco più lavori, nonostante siano finiti sotto l'ala protettrice della Bella Union dell'eterno Simon Raymonde, passano inosservati come una lieve folata di vento nel terso cielo d'estate, lasciando un interessante ventaglio di canzoni degne di nota e una cospicua quantità di bottiglie vuotate. È il 2004, tutti lo ricorderanno per il biscotto tra Danimarca e Svezia, pochi o nessuno come l'anno in cui i Czars chiusero bottega.
Grant, trentaseienne, realizza che è troppo tardi per fare l'idraulico e troppo presto per chiudere con la musica, così si trasferisce all'estremo est a stelle e strisce, nella città che non dorme mai. "New York ha tutta l’iridescenza dell’inizio del mondo" sosteneva Scott Fitzgerald e Grand avrà pensato che non c'è posto migliore per resettare e ripartire da zero che questo, dalla starting line del globo. La fortuna, si sa, aiuta gli audaci e si materializza nelle sagome di Paul Alexander & Co. (Midlake) che dapprima si portano il ragazzone (come i Flaming Lips) in giro per il Nord America su e giu dai palchi e successivamente gli coproducono "Queen Of Denmark" e non c'è bisogno che aggiunga altro.
Tre anni di distanza intercorrono tra "Pale Green Ghosts" e la prima, sopracitata fatica. Sei anni, invece, tra "Queen Of Denmark" e l'ultimo con i Czars come band a tutto tondo (in "Sorry I Made You Cry" c'è solo John e gli strumenti abbandonati). Il numero della perfezione (Leopardi docet) è ricorrente nelle tappe fondamentali di Grant. Vabbè, è solo una coincidenza, nemmeno tanto clamorosa. Comunque sia, semiotica "cabalistica" a parte, l'ex Czars, tra il tempo passato a nascondersi dai suoi demoni e quello dedicato al sorseggio di rigeneranti, meditativi fluidi inebrianti, sforna due disconi che monopolizzano tutte (o quasi) le copertine delle riviste di settore.
Allora, dicevo, il barbuto cantautore è qui dinanzi a me e mi scruta con incredibile espressività, come un soggetto uscito dai dipinti del realismo del XIX secolo, esortandomi all'ascolto. Ed io non mi faccio pregare.
"Pale Green Ghosts" è un lavoro a lento rilascio, bisogna farlo sedimentare per bene prima di coglierne le delizie. I mille volti dell'album sono la naturale trasposizione della schiera di fantasmi che alloggiano presso le stanze segrete di Grant. Poderose e baritonali le ballate di "Pale Green Ghosts" sono un viaggio negli anfratti più remoti dell'artista, narrando ed evocando la morte ("Sensitive New Age Guy " scritta per un amico suicida) e la vita che nonostante tutto scorre ("Ernest Borgnine" dove cita la sua sieropositività). Bagliori e oscuri passaggi vanno a braccetto nelle undici tracce del lotto, spaziando tra l'asettica elettronica della iniziale titletrack "Pale Green Ghosts" e " You Don't Have To" fino a capitoli come "I Hate This Town", imparata a lezione dal Sergente Pepper, "GMF" e "It Doesn't Matter to Him" dove abbandona marchingegni digitali e sintetizzatori ed imbraccia una chitarra acustica come un Van Morrison brand new, mantenendo inalterato il fil rouge dell'album. Il tutto decorato finemente dalle sessioni corali di una certa Sinead O’Connor ( "Why Don’t You Love Me Anymore" su tutte). "Glacier", fanalino di coda, chiude il secondo capitolo nelle morbide note di una struggente ninnananna per pianoforte e voce, ricordando l'orchestrina del Titanic che continua imperturbabilmente a suonare mentre tutto cola a picco, fino all'ultimo centimetro di speranza, al primo deciso passo nel vuoto.
"Pale Green Ghosts" sprizza angoscia da ogni poro ma non si piange addosso, esorcizzando le inquietudini con un sottile, rassegnato humor. La vita prosegue nonostante tutto. "You know how to get what you want, don't you?"...lui decisamente si, e continua a sorseggiare la bevanda bollente che nel frattempo si è freddata.
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