Il quinto album dei Journey non è grande cosa. Vendette comunque molto bene al tempo (1979), sfruttando l'onda positiva del precedente "Infinity" il quale, a parte la grossa e decisiva novità rappresentata dall'ingresso di un cantante di ruolo dalla voce oltremodo importante, godeva anche di maggiore ispirazione compositiva in confronto. Qui si vivacchia un po', si mantengono le posizioni raggiunte di recente, ma insomma anche questa non è opera che abbia fatto la storia del gruppo, e tantomeno del rock.

Vi è comunque un importante mutamento nella formazione ossia il cambio del batterista: è, curiosamente ma indicativamente, l'ultimo arrivato il vocalist Steve Perry a prendersi la briga di fare le scarpe ad Aynsley Dumbar, musicista dal lungo curriculum e fra i membri fondatori del quintetto. La motivazione portata avanti da Perry è piuttosto oltraggiosa, quanto (a mio giudizio) ineccepibile: Dumbar ha tutta la tecnica e l'esperienza che si vuole, ma manca di groove, di spinta, di potenza, almeno per il tipo di musica melodica ma pesante che il gruppo persegue. Il cantante lancia dunque il sasso, i suoi compagni e soprattutto il manager del gruppo pian piano realizzano quanto sia nel vero e per il buon Aynsley è tempo di cercarsi un altro progetto.

D'altronde al suo posto arriva un mezzo portento: Steve Smith è uno di quei batteristi semplicemente perfetti e incredibilmente eclettici, che sanno suonare tutto e si adattano a tutto. Già da ragazzino girava con le big band e con i migliori jazzisti, ancor oggi i suoi clinic di alto livello sono i più frequentati al mondo. Per lui non è veramente un problema se la musica di una band ha bisogno di drive massimo: un semplice cambio d'impugnatura della bacchetta sinistra, da classica a timpanistica, e lui è pronto a far detonare il rullante e a spostare gli accenti leggermente più avanti di quando suona jazz, assicurando ai compagni un tiro fenomenale.

Il singolo che trascinò l'album quasi in cima alle classifiche americane di allora s'intitola "Lovin', Touchin', Squeezin'" ed è uno shuffle blues che procede sornione e sottocoperta sino al lungo, agganciante, super poppesco coro "Na na na na na..." finale, sparato a quattro voci e in sostanza responsabile quasi per intero del suo riscontro commerciale, ancor oggi riproposto fra i bis nelle scalette di tutti i concerti. La canzone è parto del solo Steve Perry, in rapida ascesa all'interno del gruppo quale figura predominante, al posto dei soci fondatori il chitarrista Neal Schon ed il tastierista ed ex voce solista Gregg Rolie.

Ci vorranno altri due album perché questa banda assuma l'organizzazione ed il suono che la faranno grandissima. Cantante dominante e batterista straordinario sono a questo punto arrivati... mancano ancora il cambio di produttore a favore di qualcuno ben più enfatico ed estetizzante, e questo avverrà col successivo "Evolution" (1980); ed infine un tastierista di ispirata vena melodica e romantica, atto a spostare (in combutta col cantante) il baricentro della loro concezione melodica del rock duro dall'attuale blues al pop. Ed allora sarà il momento di "Escape" (1981) e del salto definitivo di qualità, personalità e riscontro popolare.

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