Recentemente ho scritto, commentando una recensione, che " un po' di horror non guasta". Forse un'affermazione forte ma è indubbio che gioia e dolore possono intrecciarsi nell'esistenza e a volte può toccare in sorte un doloroso banco di prova, superato il quale si risulterà profondamente cambiati.

Se quanto sopra può suscitare dubbi, allora è il caso di vedere questo film presente sulla piattaforma Netflix e dal titolo " La società della neve". Realizzato da Juan Antonio Bayona e ispirato all'omonimo libro di Pablo Vierci, è l'efficace e fedele rappresentazione, priva di abbellimenti, di una tragedia aerea occorsa nel lontano 1972 ( un fatto di cronaca che aveva già ispirato altri due film precedenti). Nulla di romanzato in questo disaster movie, solo la tragica odissea dei passeggeri del volo 571 dell'aereonautica uruguayana. Decollato da Montevideo il 12 ottobre 1972 e con destinazione Santiago del Cile, l' aereo che trasportava 45 persone ( in maggioranza componenti di una squadra uruguayana di rugby) per errori tecnici si schiantò in un tratto della cordigliera andina. I 16 superstiti furono tratti in salvo solo il 23 dicembre 1972, dopo 71 giorni tremendi passati in una zona inospitale e in condizioni proibitive.

Lascio a voi immaginare cosa possa significare sopravvivere a quote montane elevate, con temperature notturne intorno ai 30 gradi sotto lo zero (e in quella parte di emisfero il periodo fra ottobre e dicembre corrisponderebbe alla nostra primavera, peccato che in alta montagna il freddo è tosto..), con razioni di cibo esaurite dopo la prima settimana e estrema difficoltà ad essere rintracciati dalla ricognizione aerea. Inutile dire (e qui il film evidenzia mirabilmente il tormento psicologico e morale) che per vivere occorre sostentarsi e le uniche forme di vita edibili in zona sono solo i cadaveri dei passeggeri morti prima nell'impatto e per freddo e inedia poi. Che fare quando i morsi della fame si fanno sentire e fuori dai resti intatti della carlinga aerea domina il freddo della tormenta? I dilemmi morali, ovviamente, vengono meno e quando tutto questo incubo sarà terminato per l'arrivo dei soccorsi, i superstiti saranno persone provate sia fisicamente, sia psicologicamente.

Non c'è, quindi, un vero e proprio lieto fine. Il regista riesce a rappresentare magistralmente le fasi dell'impatto aereo sulla cordigliera andina, senza poi indugiare sui risvolti pratici horror della scelta obbligata del cannibalismo. Semmai ci mostra il rovello morale dei vari personaggi ( validamente interpretati da attori esordienti) che si chiedono che senso possa avere quanto stanno vivendo e, in tutto questo, dove stia Dio e, a vicenda chiusa, per quale motivo alcuni siano sopravvissuti e altri no. E poi: cosa significa sopravvivere?

Insomma, tutti quesiti ponderosi che interrogano anche le coscienze di noi spettatori, che assistiamo ad un' epopea incredibile ma vera da cui si salveranno in pochi dotati di un fisico robusto messo a dura prova ( molto più impegnativa di una normale partita di rugby). Certamente la spinta a sopravvivere, così suggerisce fra le righe il regista, è data da uno spirito di squadra che permette un' incredibile solidarietà (e qui può insorgere il dubbio che in quei terribili 71 giorni molti dei coinvolti nel disastro siano stati tentati dall'istinto di salvarsi da soli senza badare ai compagni di sventura). Ma è pur vero che, in situazioni estreme, l' essere umano può compiere azioni incredibili come il lasciare detto di disporre del proprio cadavere in favore dei superstiti.

Una visione di una pellicola tosta, da cui si esce con la seguente legittima domanda: se fossi stato presente in quel frangente, cosa avrei fatto?

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