Quando ci si imbatte nella one man band Judas Iscariot i giudizi spesso risultano contrastanti. Il buon Andrew Jay Harris, alias Akhenaten, in ottemperanza al tipico individualismo statunitense, decise di essere padrone assoluto del proprio monicker, componendo i pezzi in perfetta solitudine: come ogni progetto che non preveda scambi di opinione con altri musicisti, l'universo creato rischia di essere autoreferenziale oltre che pervaso dalla monotonia. "Distant in solitary night", quarto full lenght della band dell'Illinois, ormai datato 1999, si presta più di altri lavori di Akhenaten a suscitare critiche, mugugni o reazioni completamente opposte: considerato da molti il vertice della produzione del nostro, da altri invece semplice spazzatura imitativa, l'album in realtà si situa, senza troppe scosse, nell'alveo di un USBM che fin dalle proprie origini ha cercato di trapiantare il black scandinavo di matrice norvegese in terrirorio americano. Il risultato, di cui Judas Iscariot è stato uno dei primissimi esempi, non sempre ha dato i frutti sperati: poche variazioni sul tema, tentavi a volte goffi, perle rare. Tuttavia l'influenza di Akhenaten sulle band successive è indubbio: pezzi lenti ed atmosferici, tentativi di un songwriting filosofico debitore di Heidegger e Nietzsche, tematiche anticapitaliste, pioggia di nichilismo anticristiano che spesso ha fatto pensare, a torto, a rigurgiti di stampo NS. "Distant in solitary night" rappresenta la summa della visione cara a Harris, piuttosto uniforme dal punto di vista della proposta musicale, ma a suo modo coerente e coscientemente epigone della scena norvegese. Se "The winds stant silent", "Black clouds roll under the parapet of the sky" e "To the black tower of victory" hanno i piedi ben piantati nei primi Darkthrone e Burzum, con riffs prolungati e ripetuti e melodia monocorde, innervata da accelerazioni in lo-fi in cui il drumming, vero tallone d'achille del polistrumentista, risulta timido e spesso fuori tempo, "Where the winter beats incessant" e "In the bliss of the eternal valleys of hate" si snodano attraverso tempi più cadenzati tenendo sempre presente il Vikernes più atmosferico, mente la strumentale "The clear moon, and the glory of the darkness", con chitarra e sinth, richiama ruffianamente il padre putativo Isengard. Chiude il platter forse l'apice dell'intera produzione Judas Iscariot, ovvero "Portions of eternity too great for the eye of man", outro dall'incedere ripetitivo ed ipnotico, al cui fascino si può soccombere e che rappresenta la perfetta conclusione per un disco altanelante, ma a suo modo sintesi di un percorso personale che di lì a poco inevitabilmente si interromperà: il black metal americano prenderà successivamente altre strade.
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