C'è una Polonia più vicina a noi, e di conseguenza più vicina al cuore stesso del continente. Una Polonia più europea, estremo avamposto orientale della Germania e (musicalmente parlando) di quella straordinaria temperie berlinese che a partire dagli anni '70 decise e modificò i destini della musica mondiale. Il Duca Bianco celebrò Varsavia in uno degli episodi più inquietanti/mistici/visionari di quel Manifesto autentico che è "Low" - con sguardo tra l'affascinato e l'ammirato verso tutto quello che c'era ad Est del Muro: sterminate distese di sola pianura, agli occhi degli Occidentali orizzonti sonori non meno che geografici.
E c'è una Polonia più lontana, remota, distante sì ma non abbastanza da non poterne percepire l'eco: quella Polonia che è già una terrazza affacciata sul Baltico e la Russia, la Polonia del vecchio Granducato Lituano, un Paese molto più SLAVO, culturalmente, che non mitteleuropeo (diritto internazionale a parte).
Julia Gòrniewicz in arte Marcell possiede il Talento cristallino, rarissimo anzi unico, di includere nella sua musica risonanze dell'una e dell'altra Polonia. Berlinese d'adozione ma originaria di Olsztyn/Allenstein (Polonia nord-orientale), questa ragazza classe 1982 è dotata di un'immaginazione e di una sensibilità sonora che, all'ascolto del qui presente disco di due anni fa, m'hanno lasciato con poche parole. Parole che ho ritrovato adesso, per dire che - a dispetto d'un inspiegabile silenzio che in Italia la circonda - abbiamo a che fare con un'Artista di livello internazionale.
Certo, dimentico di dire che - oltre alle qualità già ricordate - la Nostra è in possesso d'un mezzo vocale non comune. Ma il mezzo vocale non fa l'Artista. Nel caso di Julia, la statura artistica è determinata anche dal coraggio di saltare (e il balzo è stato davvero importante, nel giro di due soli anni) dal minimalismo per piano e archi dell'opera prima "It Might Like You" al pasticcio difficilmente classificabile di "June", in cui un lavoro e un acume notevoli mettono in fila - ma di norma, dentro lo stesso pezzo: elettronica, intermezzi classici, ritmi tribali, influenze slave e quadri pianistico/ambientali da applausi.
Ma la cosa più rimarchevole della proposta è la disinvoltura assoluta nella sovra-incisione/sovrapposizione di più parti vocali, nonché quell'impressione che avrete di "sovraffollamento sonoro" derivante dall'utilizzo della sua stessa voce come elemento ritmico. Il fatto risalta soprattutto in "Echo", con la linea vocale-base che è cantata in inglese e il martellante apparato corale in polacco - a disorientare doppiamente. Se a volte l'elettronica si fa più esplicita (ma spesso sono programmazioni per tastiera con basso e batteria incisi in un secondo momento), gli esiti sono comunque imprevedibili, spiazzanti (vedi "CTRL", "I Wanna Get On Fire" e soprattutto "Matrioszka", sorta di celebrazione del lato più "slavista" della musica di Julia). "Gamelan" è geniale per struttura armonica ed è esattamente quel che dice il titolo, salvo l'effetto-straniamento totale alla comparsa di un clavicembalo (!) che per i ritmi indonesiani non è molto comune... d'altro canto non mancano, e non potevano mancare, momenti di pura ipnosi ("Since" su tutti).
E la sua voce? Un incanto, delicatissima a tratti ma pronta a slanci d'aggressività insospettati, densa di sfumature e carezze che sfiorano appena le note, giocano con esse, ne fanno un tramite di espressività straripante.
Lungi dal poter piacere a chi non ama l'eclettismo e l'elettronica, e preferisce i canali consueti delle sonorità anglo-americane...
...ma per i gusti del sottoscritto, Julia rappresenta qualcosa di MOLTO importante.
Buon ascolto (a chi vuole).
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