Kaleidoscope (USA) – Incredible! (Epic, 1969).
Attraversare il cuore del mistero è, in questo caso, chiedersi come mai, all’interno della Summer of Love, una musica così mirabile ed esemplare, così ben suonata, come quella dei Kaleidoscope (USA), possa esser rimasta quasi priva di riconoscimento e legittimazione. Eppure. Così estrosa, così colta e popolare al contempo, così “massimalista” e capace di entrare ed uscire dalle pastoie del tempo! “Incredible!”, l’album del 1969, il loro terzo lavoro, rappresentò il loro maggior successo commerciale, cristallizzando quella sua propensione a drammatizzare il suono di quattro continenti, nella poco lusinghiera 139° posizione di Billboard. Frattanto, senza aumentarne il prestigio, Jimmy Page li definì “My favourite band of all time, my ideal band”. Giusto @[IlConte]?
I Kaleidoscope, formatisi nel 1966 a Berkeley, erano polistrumentisti pieni di talento, di inventiva ed immaginazione. Eccentrici. Privi di clichè. Uno dei gruppi più singolari degli anni 60 e certamente i più eclettici dell’era psichedelica.
Mescerono Folk, Blues e musiche etinche mediorientali fondando un idioma smaccatamente autonomo, senza intrecci con la psichedelia lisergica dei Grateful Dead, con l’Acid Rock aitante dei Quicksilver Messenger Service, col Folk Pop acido dei Jefferson Airplane o col lirismo dei Love, col Garage Rock di 13th Floor Elevators e Seeds, col rumore libertario dei Red Krayola, con la protesta di Country Joe And The Fish contro l’estabilishment bellicista, razzista e reazionario. E mi fermo qui, per dire della loro originalità in un orizzonte di irripetibile bellezza.
I Kaleidoscope contaminarono il Folk americano con l’esotismo in modo sgangherato, obliquo ed irregolare, ma non casuale, né spurio. Vennero, così, considerati tra gli anticipatori del connubio tra Rock e World Music. Il loro stile, con la sua opulenza e coesione, si confermerà, negli anni, privo di epigoni.
Accanto a chitarra, basso e batteria, prevedevano strumenti Country come banjo, mandolino, violino e strumenti esotici, soprattutto a corde, come dobro, bozouki, saz, dulimer, salterio, ma anche a percussione come darabouka e tabla (quest’ultima verrà riprese dalla Third Ear Band).
Erano: David Lindley, chitarra e violino (poi sessionman di Jackson Browne, Warren Zevon e Bruce Springsteen), avvezzo alla scena Bluegrass e Jug. Solomon Feldhouse, voce baritonale originalissima, esperto di strumenti etnici turchi, con un passato da accompagnatore di danzatrici del ventre. Chris Darrow, basso, ottimo compositore. Chester Crill, tastiere, armonica e violino, amante degli pseudonimi, si chiamerà Fenrus Epp, Maxwell Buddha, Max Buda e Templeton Parcely. John Vidican, batterista.
Side Trips, del 1967 era stato un gran bel esordio tra Folk Rock e Acid Beat screziati di melodie orientali e psichedelica (es. “Egyptian Gardens”, “Pulsating Dream” e “Oh Death”).
A Beacon From Mars, il capolavoro del 1968, apportava la metamorfosi del Country and Western nel Raga Folk e nel Rock Blues di vasto immaginario lunare, in un ecclettismo sempre più spinto. Proponeva due straordinarie jam di “Jazz-Rock”: Taxim (divagazioni su tema popolare turco) e A Beacon From Mars (un blues dilatato verso il rumore e lo spontaneismo più divergente). Fu immortalato in presa diretta senza sovraincisioni di studio!
Ed eccoci ad “Incredible!”, altra opera di grandissimo spessore e prelibatezza eccedente. Le defezioni di Darrow e Vidican, portano ai nuovi innesti: Stuart Brotmann al basso e Paul Lagos preparatissimo percussionista.
I nostri ci sommergono -e graziano- con suoni elettro-acustici in brani decisamente votati al Folk. Due le cover: “Killing Floor” di Howlin’ Wolf resa funky e la tradizionale “Cookoo”, ove imperano le percussioni di Lagos e la potenza del canto di Feldhouse. C’è poi la lunga suite di quasi 12 minuti inebrianti di Raga-Rock “Seven Ate-Sweet”: meno improvvisata dei due predecessori (i.e. gli sconfinamenti marziani), a ritmo bulgaro di 7/8, sviluppa in maniera prodigiosa un tema nuziale turco. Anche seguire soltanto la linea del basso porta ad un incanto abbacinante, definitivo. Così per le fughe multidirezionali e spasmodiche dei violini. O l’impeto dell’elettrica di Lindley che spazza il brano come un vento torrido. Ma qui, attraverso ogni strumento, si giunge all’esaltazione delle potenzialità espressive del dettaglio e del tempo. Così è per il canto, che attraversa cinque macro-fasi che esemplificherei in questo modo: fase “silenzio”, fase “muezzin”, fase “cartone animato giapponese”, fase “balcanica”, chiusura “indefinita”.
Ci sono poi Benjo, con Lindley che stilla note a velocità crescente in un Raga-Country non scevro delle fantasie da “american primitivism” di Sandy Bull. Ancora tempi dispari, 3/4, nella tumultuante “Petite Fleur”, cantata in francese, e, infine, la splendida ed accattivante “Lie To Me”, con sezione ritmica ficcante e strumenti a corda sdrucciolevoli. Un appeal Pop inusitato per il “barbarismo” di fondo dei nostri. Per me (tra parentesi) il Back collagista di “Mellow Gold” e “Odelay” l’ha mandata a memoria, ma è un problema mio…
Dunque, in “Incredible!” rinveniamo l’attenzione al “Sud del mondo” ed alla fisicità del suono, in una musica che si presenta ricchissima, ma mai appesantita, veloce e scorrevole, sempre pronta ad ammaliare, per variazioni e virtuosismi mai sterili dei musicisti.
Naturalmente non vendette nulla e col flop totale di “Berenice” (valido Country Blues elettrico, capace dell’essoterica ed illuminante “To Know Is Not To Be”) sopraggiunse la prematura fine della storia del gruppo, salvo qualche sporadica e rabberciata reunion (nel 1976 con “When Scopes Collide” e nel 1990 con “Greetings From Kartoonistan”, ma qui arriva solo Imasoulman @[imasoulman]). Quel che la storia non dice, lo enarra la leggenda. Generazione impudica quella che non li amò abbastanza!
Io sto coi Kaleidoscope. Eterodossi e marginali. Suadenti, con quel loro eclettismo senza possibilità di epigoni. Esecutori della “volontaria sospensione dell’incredulità” di Coleridge e portavoce di un limpido incanto da un interstizio sapiente e consapevole dell’era psichedelica.
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