La microtonalità per le nostre orecchie occidentali può risultare un territorio sonoro abbastanza ostile.
In alcune parti d'Italia, dove la contaminazione araba è stata molto massiccia, il quarto di tono è una pratica diffusa nel repertorio tradizionale e anche in quello contemporaneo. Poi, se non avete mai visto un concerto di quei cantanti napoletani ventenni con l'orecchino e i capelli simpatici e gellati che dedicano canzoni a parenti e amici “ospiti dello stato”, cavoli vostri.
Fatto sta che, paradossalmente, tolto qualche maestro del dire contemporaneo che gioca a fare il Giacinto Scelsi (senza riuscirci più di tanto), c'è stato un momento storico in cui il mondo occidentale ha urlato a gran voce il ritorno alla tonalità. Le atmosfere orientaleggianti di Béla Bartók, il fascino a est, così radicato nella Parigi di Satie, le “note tra le fessure dei tasti” di Charles Ives, sono andate fuori moda.

La fine della seconda guerra mondiale ha spazzato via l'oriente, riconducendolo alla sua accezione meramente folkloristica e poco altro. A poco è valso lo sforzo di tutti quegli artisti che nel secondo Novecento hanno insistito con quarti, terzi, ottavi e sedicesimi di tono, sfruttando il più possibile gli strumenti ad arco, creando quella classica atmosfera da “musica colta d'avanguardia” che avanguardia era e come avanguardia è stata archiviata.
C'è anche chi ha detto: “Ma meglio l'archicembalo di Vicentino!”.

Rare sono state le eccezioni, tra queste il Sitar, ben accetto grazie all'evangelo pop di George Harrison e compagnia e quindi eletto a strumento “lisergico”. Difficile incontrare qualcuno che non colleghi il nobile strumento a parole tipo “viaggio” e “sballo”, molto più facile incontrare qualcuno che non conosca Passages di Shankar e Philip Glass.

La tonalità tradizionale, in occidente, ha spadroneggiato in lungo e in largo. Adesso arrivano questi australiani, incastonati in quell'oceano bandcampiano che non sai mai se hai pescato una spigola o la tazza del cesso (ma la discografia sembra far propendere più per la spigola). Un collettivo di sette elementi che ha già all'attivo degli album molto interessanti e l'idea di proporre un “Flying Microtonal Banana” volume 1 è molto piacevole. Pare che nel corso del 2017 arriveranno al volume 5.

Neanche Albertino dei tempi d'oro è riuscito ad arrivare a 5 Deejay Parade in un anno e di questo, gliene do atto, bravi loro.

Bravi a crederci, soprattutto, perché sì che la discografia “alternativa” sta vivendo un momento felice ma ci vuole davvero una forte dose di entusiasmo per presentarsi cinque volte in un anno al cospetto dei tritacarne, delle pagelline e della sala d'incisione.

Probabilmente, oltre la strumentazione e il “tuning”, hanno deciso di ereditare anche il fascino orientale dell'ascetismo.

Una cosa mi spiace, però. C'avessero creduto un pochino di più, sarei qui a raccontarvi il capolavoro degli anni 2000, perché tante sono le citazioni di altissimo livello, anche etnomusicologiche, ottimi i testi, ottimo o almeno, pertinente il momento storico. Sfortunatamente la produzione è estremamente vintage, suona un po' macchietta indipendente, la voce filtrata fa un po' “sentici, sentici, quanto siamo alternative” e un po' spiace l'intento di raccontare una storia così, come storia sbagliata, paragonando il loro intento in antitesi ai coretti da barbiere che intonano armonie perfette e consonanti, mentre loro sono “out of tune” e fighi.

Cage e Scelsi non l'avrebbero fatto!

La verità è che la perfezione non esiste: il compromesso del temperamento equabile ci ha regalato un modello approssimativo ma umanamente accettato dal nostro udito.

E tutto questo per giocare a creare un cerchio magico dove modulare e avvicinare, sempre di più, la musica al verbo.

E quindi anche lo sforzo di giocare a girotondo con la musica ha l'acre sapore del compromesso e di certo il tutto non può ricondurre a una verità a bordo ring con i calzoni blue 12-TET, contro un'altra verità in calzoni rossi e 24-TET, dall'altra parte.

Altrimenti, se deve essere così, vincono artisti come Jandek che con la sua chitarra out of tune e il suo intercalare da perdente ha sfornato intere discografie di album, per dirla con loro, “inascoltabili”.

Flying microtonal Banana è un ottimo album perché, in primis, ascoltabilissimo e, cosa non da poco, una gran bella novità tutta da scoprire. Io consiglio di accaparrarsi il disco, con un artwork davvero ben fatto e un vinile giallo banana. In più, un adesivo “scratch'n sniff” che mi ha ricordato un po' le tamarrate cancerogene anni Ottanta e Polyester di John Waters in Odorama. Chissà cosa riserveranno 'sti ragazzi nel corso di questo 2017.

Basta tenerli d'occhio e in fondo, un terzo occhio, se lo meritano.

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