Tra l’uscita di Declaration of Dependence e quella dell’ultimo Peace or Love i due componenti dei Kings of Convenience, Erlend Øye e Eirik Glambek Bøe, non sono certo rimasti inattivi. Entrambi si sono dedicati ai propri progetti paralleli, seppure con le debite differenze. Erlend, trasferitosi con la madre a Siracusa, ha pubblicato nel 2014 Legao, interessante lavoro registrato insieme alla band reggae islandese Hjálmar, per poi regalarci Quarantine at El Ganzo, realizzato durante il lockdown trascorso in Messico con Sebastian Maschat dei The Whitest Boy Alive, formazione nella quale milita lo stesso musicista norvegese. Dall’altro lato Eirik, divenuto nel frattempo padre, ha rimesso in piedi i Kommode e ha dato alle stampe Analog Dance Music, album formato da dieci tracce che si allontanano sia dal sound acustico dei Kings of Convenience che dalle fascinazioni indie-folk del compagno di gruppo.

Fedele al titolo, Analog Dance Music attinge direttamente dalla disco-music (e in parte dall’indie-rock e dal pop atmosferico à la Chris Rea), rispolverando quell’armamentario fatto di batterie e bassi incalzanti, sintetizzatori, fiati, cori, specchio perfetto del periodo preso in esame. Tuttavia sarebbe errato considerare l’opera un divertissement per danzatori dallo spirito vintage, poiché Analog Dance Music, con il suo uso discreto dell'elettronica, si presta più a un ascolto immersivo, da poltrona o divano, che a balli sfrenati e sudaticci.

I would love to dance/If only I could crack some clues and find my shoes/My only shoes”: fin dalle prime parole capiamo che Eirik non si è improvvisamente trasformato in Tony Manero, ma resta il songwriter di sempre, con il suo repertorio fatto di timidezze, dubbi e amori incompresi.

I due brani iniziali, “Shoes” e “Captain of a Sinking Ship”, mettono dunque le cose in chiaro e sembra quasi di ritrovarsi dalle parti dei napoletani Nu Genea, a loro volta ispirati dal sound disco di fine anni Settanta. I pezzi successivi seguono più o meno lo stesso copione, tra groove che fanno muovere il piedino e testi intimisti, mentre “The Ink in the Great Book of Music” è una composizione interamente strumentale, dominata da un intreccio di synth, batterie e percussioni.

Agent” e “Houses for Birds” ci trasportano in un soft-rock che profuma di spiagge solitarie e malinconiche (la seconda pare davvero uscita da un album di Chris Rea), per poi lasciare spazio a “I Feel Free”, dove i ritmi regolari si alternano a suggestioni dal sapore jazz/bossa nova. La chiusura è affidata a “Come On, Sense!”, morbido indie-pop dai bassi coinvolgenti in cui Eirik consegna a carta e penna le sue speranze d’amore (“Oh paper, white paper, hold on now to these words/Paper, white paper, how to get through to her/When she lifts you up from her drawer, running her eyes all over you/Will you show her, and show clearly, all the things I'm writing on you?”).

Il risultato è tutto sommato positivo, eppure Analog Dance Music non convince pienamente. Gli arrangiamenti sono fin troppo simili (i più cattivi direbbero monotoni) e la voce di Eirik, spesso sussurrata, non infonde gran brio alle canzoni dei Kommode. A lasciare un po’ perplessi è anche il riferimento alla “dance music” (al sottoscritto non è quasi mai venuto in mente di ballare), ma qui può soccorrerci l’ironia che ha sicuramente motivato la scelta della band.

In conclusione, il disco di Eirik Glambek Bøe e dei Kommode è senza dubbio buono, ma non raggiunge i livelli dei Kings of Convenience e di alcune prove soliste di Erlend Øye, a mio avviso più allegre, leggere e ricche di spunti.

Promosso con riserva.

Voto del DeRecensore: 3,5

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