Parlare di una popstar come Lady Gaga è un’impresa paragonabile a un’arma a doppio taglio: da un lato si rischia di scadere nell’esaltazione e nell’idolatria e dall’altro di sminuirne eccessivamente le doti, ritornando alla solita contrapposizione tra “underground” e “mainstream”. Restando obiettivi, potremmo dire che dopo l’esordio The Fame, trascinato dai singoli “Paparazzi” e “Poker Face” (senza dimenticare l’ottima reissue The Fame Monster, arricchita da tracce inedite e alcuni remix), la carriera di miss Germanotta è proseguita senza particolari acuti, tra album non del tutto riusciti e una parallela vita da attrice, culminata con il successo di “Shallow”, canzone inserita nella colonna sonora di A Star Is Born e premiata addirittura con l’Oscar.

Questo veloce recap sottolinea una delle qualità di Gaga, vale a dire la sua capacità di reinventarsi da un punto di vista estetico e musicale, una scelta che, guarda caso, può causare nuovi scontri tra estimatori (che apprezzano le sue tendenze camaleontiche) e detrattori (che vedono il tutto come un tentativo di camuffare la mancanza di una vera personalità artistica). Come spesso accade, la verità sta nel mezzo: in questi anni la cantante newyorkese, pur rinnovandosi di continuo, sembra aver perso la freschezza del debutto e le varie uscite discografiche hanno costruito una maschera (l’ennesima, direbbe qualcuno) che ha oscurato il suo talento e l’ha allontanata da un’immagine, se non vera, quantomeno più schietta e genuina.

Arriva quindi il momento di ritrovare se stessi, e cosa c’è di meglio che affidare alla musica questo processo di guarigione? Assoldata dunque la solita truppa di producer (tra i quali spiccano Skrillex e il fidato BloodPop), l’obiettivo di Gaga è quello di tornare alle origini, nel tentativo di recuperare le sonorità di The Fame e aggiornarle in qualche modo al presente. Ecco che l’electro-pop degli esordi si fonde con la dance e la house degli anni Novanta, mentre la cantante veste i panni di un’eroina cyberpunk, aggressiva e fragile al tempo stesso, un incrocio tra una Madonna post-atomica e un personaggio uscito direttamente da un B-movie fantascientifico. Il risultato di questo lavoro è appunto Chromatica, un album che si allontana dal country-pop di Joanne e dalle melodie strappalacrime di “Shallow” per sottolineare, ancora una volta, il potere liberatorio della musica e della danza. Gli elementi che saltano all’occhio (e all’orecchio) sono essenzialmente due: il contrasto tra melodie solari e testi introspettivi e il desiderio di creare, se non un concept-album, almeno un percorso che si sviluppi nei sedici brani della tracklist.

Could you pull me out of this alive?/Where’s my body? I’m stuck in my mind”: è così che inizia “Alice”, primo esempio di ciò che ci aspetta nel caleidoscopio di Chromatica. Non si fa in tempo a chiedere aiuto (“Take me on trip, DJ, free my mind”) che ci si imbatte nei singoli “Stupid Love” e “Rain on Me”, il primo zeppo di rimandi alla disco moroderiana (e dove “qualcuno” si domanda: “I gotta find that peace, is it too late?/Or could this love protect me from the pain?”), il secondo accompagnato dalla voce di Ariana Grande e da un videoclip visionario, ispirato decisamente alle atmosfere di Matrix. “I'd rather be dry, but at least I'm alive”: è questa la consapevolezza che si raggiunge e “Free Woman”, con il suo pianoforte smaccatamente 90’s, aggiunge ulteriori elementi d’interesse (“I’m still something if I don’t got a man” è un verso che sembra alludere a uno spiacevole episodio di molestie sessuali). Fun Tonight” conclude la prima parte, tra dance, breakbeat e la voce di Gaga che si concede voli da equilibrista, senza nascondere il lato umano della cantante (“You love the paparazzi, love the fame/Even though you know it causes me pain/I feel like I’m in a prison hell/Stick my hands through the steel bars and yell”). Nella parte centrale spicca “911, altro tripudio di sonorità electro con videoclip ricco di citazioni cinematografiche (da Il colore del melograno a El Topo, mentre la nostra accenna alle sue recenti sofferenze psichiche: “My biggest enemy is me ever since day one”). Il desiderio di essere umana e non un “toy for a real boy” viene sottolineato in “Plastic Doll”, mentre “Replay” è un brano eccezionale, che ricorda la migliore house di Armand Van Helden (notevole anche il testo, in cui Gaga si confronta ancora una volta con i fantasmi della propria mente). In “Sine From Above” avviene l’incredibile: duetto con Elton John, sonorità trance e coda drum and bass (probabilmente un po’ azzardata, ma come si fa a non cantare a squarciagola: “Yeah, I looked/With my face up to the sky/But I saw nothing there/No, no nothing there”; e ancora: “I heard one sine/And it healed my heart, heard a sine”). E in conclusione c’è spazio per “Babylon”, esplicito tributo alla Louise Veronica Ciccone di “Vogue”, con tanto di rappato hip-house e riferimenti all’Antico Testamento (“Talk it out, babble on/Battle for your life, Babylon/That’s gossip, what you on/Money don’t talk, rip that song”, frasi che evidenziano una critica nei confronti di tabloid e stampa scandalistica).

Siamo alla fine, ma più che “in fondo” sembra di essere in cima a una montagna, o forse al Settimo Cielo. E poco importa se, a tratti, la sensazione di “già sentito” diviene forte (il ritornello di “Sour Candy” o quello di “Enigma”, molto simile al chorus di “Stupid Love”): con Chromatica, Lady Gaga ha fatto un mezzo miracolo, regalandoci non solo uno dei migliori album del 2020, ma anche il Confessions on a Dancefloor della nostra epoca. Siamo di fronte a quarantatré minuti di musica eccellente, che le permettono di raggiungere la vetta più alta della sua carriera e di unire, almeno idealmente, una scatenata "tribù che balla". Per usare le sue parole: “Bodies moving like a sculpture (ooh)/On the top of Tower of Babel tonight/We are climbing up to Heaven (Heaven)/Speak in languages in a Bloodpop moonlight”.

Voto: 4,5

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