Da una piccola fattoria della Virginia a Los Angeles. E, all'inverso, ritorno. Crescendo, in mezzo, però in Irlanda: prati a pascolo sopra scogliere alte sull’oceano.

L’Omnichord è la chiave. Autoharp elettrica, sintetizzata, collegabile in modo inconsueto allo zither, al salterio, al dulcimer. Così idea i suoi otto pezzi la cantautrice. Poi una depressione splenetica, da cui si muove ed esce. Lo-fi, da cui trae, quanto rende, grande dignità. Il rifiuto di ogni software di registrazione come alba dell'album. Nessuno schermo, solo nastri, in sintonia col confermato produttore, arrangiatore, chitarrista Guy Blakeslee. Mette a punto così il suo stile onirico, corposità di pioggia e aria, spinto dall'indie folk verso campi psichedelici, country e alt-rock.

Star Eaters Delight, secondo lavoro di Lael Neale per la Sub Pop, è dell'aprile 2023. Mescola acerbità e maturità insieme. Libera finalmente una naiade irascibile e fascinosa, dalla voce acuta ma morbida. Non carezzevole ma viscerale. Un fiume in piena di femminilità descritto con pochi mezzi, lucidi, minimi, e una grande intensità, come frutto preciso di una seduttività inaccessibile.

Un lirismo nostalgico, sofferente, in cerca di certezze che corrispondono ad altrettanti turbamenti non pacificabili. L’album s’incanala sulle antinomie (campagna-città, natura-tecnologia, amore-solitudine, profondità-superficialità) e cerca una via di fuga quantomeno nella libertà dal conformismo.

L’Omnichord si lancia in assolo “garage punk” sopra la sua drum machine e il basso distorto nei brani più veloci. Nelle ballate intimiste è il piano a dettare l’atmosfera trasognata e grave sopra i sintetizzatori e i rumori d’ambiente; oppure lo fa la chitarra acustica ovattata e opposta all’elettrica in saturazione di sfondo o, in alternativa, a linee melodiche di Mellotron. Sempre con parsimonia spuntano arie folk pop anni 60 e gospel emaciati, lontananze dream pop e sentimentalismo dark wave; ma tutto è appannato e steso sul vetro trasparente di un umido e setoso linguaggio personale. Dietro quel vetro stanno questi suoni apparentemente poveri; sulla superficie, impossibile non sentirla, è come effigiata l’interiorità di Lael. E Lael spalanca il suo canto in disegni, riverberi e piccoli perimetri:


«È primavera / E tutto ciò che faccio è piangere» (“Must Be Tears”);

«Io sono il fiume, trascino giù gli uomini / … / Ho la mia tristezza e questo è sacro/ …/ Giuro fedeltà all'albero e al prato» (“I Am The River”);

«Come il sangue è sceso dalle tue labbra di preghiera / L'hai incontrato /… / Non scagliare pietre» (“In Verona”);

«È mezzogiorno in punto / Le campane di St. Ives suonano / Le strade sono di pietra e dei pensieri di te / Raggiungimi / Più velocemente di una medicina» (“Faster Than The Medicine”).


Un quadro unitario è alla finestra, dove trovi al contempo indefinizione e consistenza, profondità ed essenzialità. Rivelando e trattenendo una bellezza tanto tenue quanto spigolosa. E c’è un rigore in tutto questo, che non si può dire completamente, che fa coincidere tepore e distacco.

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