I Laibach sono un mistero dal punto di vista mediatico, e non vi è una risposta certa alla questione della loro vera identità culturale e musicale. Se si tratta, com’è possibile, della costruzione ‘a tavolino’ di una band di culto, portatrice fittizia di un immaginario reazionario (ribaltabile nel suo contrario, dati i toni parossistici), ebbene, tanto di cappello e comunanza storica e contestuale con gli altrettanto misteriosi Residents, altri destabilizzatori di professione (sebbene ad un diverso livello concettuale). Se così fosse, sarebbe dunque interamente studiata la percezione, ricercatissima in ogni particolare, riferibile senza possibilità di equivoco a simpatizzanti del totalitarismo di Tito, fiancheggiatori dei vari fascismi che hanno caratterizzato la prima metà del Ventesimo secolo (da Mussolini a Tito, da Franco a Codreanu), cultori di una crudele estetica da ‘passo dell’oca’ e fucilazioni nelle celle delle caserme.
Il problema della comprensione della messinscena operata dai Laibach è che essi hanno scelto sin dall’inizio di incarnare scrupolosamente l’estetica del dominio, della guerra e del potere totalitario, impersonando ogni aspetto di ogni possibile fascismo (da quello militare a quello capitalista) senza adottare mai alcuna posizione ragionata, tanto meno critica, ma solo l’affermazione assoluta di quell’ideale e di ogni becero e violento corollario che logicamente e iconograficamente ne deriva. Ciò può ben derivare dall’attuazione artistica di teorie psicanalitiche, prevalentemente lacaniane, secondo cui l’evidenza cruda ed esasperata del male può costituirne la cura più efficace (e ne costituisce comunque la critica più recisa) perché provoca la presa di coscienza ed una reazione motivata oltre che emozionale di shock e ripulsa (non diversamente ha operato Orwell nel metterci al cospetto dell’evidenza del totalitarismo). Potrebbe invero, au contraire, mascherare l’apologia del totalitarismo dietro una falsa pretesa catartica, risultando in tal modo artisticamente e sociologicamente giustificato ogni eccesso ed anzi pacificamente nobilitati quegli sforzi di massima impersonificazione ontologica che obiettivamente i Laibach non si sono mai risparmiati.
A dire il vero, a mente delle loro rappresentazioni concertistiche, appare talmente parodistico l’uso intensivo di voci imbarbarite, ritmiche squadrate e minacciose e marcette militari e propagandistiche (storicamente plausibili ed oltremodo sinistre), quando non di effetti sonori direttamente riconducibili ad eventi bellici e discorsi sciovinisti, da consentire quanto meno l’ipotesi di classificazione della formazione slovena tra i fake più indovinati della musica pop, diretti ispiratori di Rammstein e Feindflug, se non addirittura tra i più convinti detrattori di ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo. I Laibach hanno infatti nel tempo portato all’estremo la loro arte, immaginando la fondazione di una mitica Nazione di nome NSK (dotato di storia e cultura fittizie) e riferendo esplicitamente la propria impersonificazione fascista (anche) alle metodologie ed alle teorie del capitalismo e del liberismo. I Laibach marxisti, insomma? A vederli, non sembrerebbe (ma questo è l’effetto che vogliono ottenere, ovviamente).
Confortati ma non rassicurati da questi ragionamenti, possiamo prendere in esame il disco con il quale essi hanno abbandonato lo stadio delle cassette e dei vinili autoprodotti e quasi clandestini, per forza di cose registrati in bassa fedeltà (ma ciò era parte integrante della fictio), per affrontare la sfida della notorietà e portare a segno un attacco sistematico al cuore della musica pop attraverso un processo di efficace destrutturazione e rilettura estetica di standards della musica di successo. E’ infatti con l’album ‘Opus Dei’ del 1987, settario e provocatorio sin dal titolo, che il gruppo decide di impadronirsi di un paio di noti brani da classifica (‘One Vision’ dei Queen e ‘Live Is Life’ degli Opus) per stravolgerne completamente lo stile ed asservirli alla propria minacciosa estetica Sturm und Drang. (Stesso trattamento riceveranno in seguito ‘Sympathy For The Devil’, ‘The Final Countdown’, ‘Jesus Christ Superstar’ e persino l’intero album ‘Let It Be’, a testimonianza di una volontà di riconversione del patrimonio musicale occidentale che non conosce pudori ed accumuna davvero i Laibach ai Residents).
Risale poi a quest’album l’enorme progresso nella produzione sonora e nell’utilizzo di strumentazioni elettroniche, rispetto ad un passato assai più ‘artigianale’, che li porterà nel volgere di qualche anno ad incidere anche veri e propri brani EBM, sempre molto minacciosi e reazionari, in questo avvicinando ritmica e industrial in modo non dissimile a Klinik e Front 242 (famose, nel 2003, ‘Das Spiel Ist Aus’ e ‘Tanz Mit Laibach’). Ad ogni modo, i due brani dianzi citati – trasfigurati in ‘Geburt Einer Nation’ e ‘Heben Heisst Leben’ – sono solo il biglietto da visita di un LP indovinatissimo dal punto di vista estetico e didascalico, pieno di proclami e discorsi, marce militari e retorica nazionalista, fanfare e ritmi da macchina bellica, il tutto assemblato all’interno di composizioni che per la prima volta vogliono fungere da canzoni (anche strumentali) e non più da mere rappresentazioni e provocazioni sonore. In questo i Laibach dimostrano di aver imparato a perfezione la lezione estetica dei Kraftwerk, tra i primi ad aver piegato nel 1974 il mezzo espressivo artificiale (ronzio e sibilo, rumore e reperto sonoro) alle necessità del ritornello pop convenzionale e non utilizzandolo ‘solamente’ ai fini del rumorismo industriale, come poi faranno Throbbing Gristle, 23 Skidoo, Cabaret Voltaire e molti altri. In questo senso la maturazione del suono Laibach appare vera e propria assimilazione del percorso ‘Kraftwerk I – Autobahn’ (volendo: ‘Tone Float – Autobahn’) e del successivo percorso della band tedesca gli sloveni terranno debito conto nel continuare a produrre sostanzialmente dance elettronica, per quanto distorta ed efferata, in fondo contaminata dal rock più oscuro assai più di tante schitarrate sataniste.
Probabilmente è impossibile dibattere dell’estetica Laibach (inscindibile dal sound e dal ‘messaggio’ complessivo) senza accapigliarsi e dissentire anche violentemente. Non è nella volontà e nel DNA del gruppo fornire facili chiavi di lettura e percorsi agevoli di decrittazione. Nell’ascoltare sovente i frutti del loro immaginario musicale, tuttavia, non posso esimermi dal percepire una provocazione costante e tutto sommato sofisticata, probabilmente intellettuale, che se confermata avrebbe l’indubbio merito storico di essere stata portata avanti sin dal 1980 e deve comunque considerarsi seminale per l’indubbia influenza che ha avuto nei confronti di molti artisti dei nostri giorni.
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