La casa di Jack è un film del 2018 scritto e diretto da Lars Von Trier ed interpretato da Matt Dillon.

Il talentuoso e controverso regista danese dirige da par suo un film piuttosto ambizioso ed impegnativo cimentandosi nel filone horror.

Matt Dillon interpreta Jack, un architetto-ingegnere ossessionato dall’idea di volersi costruire una casa da lui progettata, ossessionato dalla pulizia, ossessionato dagli omicidi. Jack è un serial-killer. Un serial killer piuttosto singolare.

Seguiremo, in tutti i sensi, la discesa negli inferi di Jack lungo i 152min di durata della pellicola. Assisteremo alle sue malvagie imprese in un crescendo di violenza e crudezza non comuni nemmeno nel genere horror.

Il film è strutturato in due aspetti. Uno riguarda la vita di Jack, come adesca le sue vittime, come le uccide, perché le uccide. Questa parte è, se vogliamo, la parte “action” del film e l’ho trovata davvero superba. La tecnica registica di LVT è molto interessante. La MDP traballa spesso accrescendo il senso di disagio e di pericolo, preannunciando l’esplosione di violenza, spesso alla luce del sole. Il gusto per i dettagli, il crescendo della tensione, sottolineato dai dialoghi tra Jack e la vittima che precedono il massacro, le inquadrature sghembe. Tutto conferisce al raggiungimento di un’atmosfera opprimente e malsana.

Il secondo aspetto che connota e delinea la struttura filmica riguarda la mente di Jack, i suoi pensieri, la sua interiorità, la sua “missione”. Questo secondo aspetto, che si alterna con una certa costanza, anche in termini di minutaggio, rispetto alla parte action, trasporta il film verso lidi decisamente autoriali. Un “capish-horror” dunque, che mostra i suoi intenti proprio nel dipanarsi della matassa ingarbugliata che costituisce la psiche di Jack. In un ideale dialogo con la sua coscienza, interpretata da un metaforico Virgilio, Jack illustra e giustifica le sue malefatte in quanto gli omicidi sarebbero a detta sua delle vere e proprio opere d’arte (natura morta? Ahah). In sintesi, questa parte del film che, ripeto, in termini di minutaggio non è inferiore alla parte “action”, ha il compito di condurci all’interno della psiche martoriata di questo infernale serial-killer il quale si sbatte non poco, in termini di dialettica, per far valere le sue ragioni. L’omicidio come opera d’arte dunque, un’opera ingegneristica, affine alle sue inclinazioni, volta a fissare nel tempo un corpo morto e congelato che una volta rappresentava la vita ma che nella fissità di un’opera d’arte, sarà vivo per sempre. La sua coscienza però, tra l’altro ben disposta ad ascoltare le ragioni del nostro, sembra non essere affatto d’accordo con lui. Il viaggio nella coscienza di Jack si avvale altresì di schematismi reiterati (Jack appoggiato sul cofano della macchina con i cartelloni bianchi in mano, gli inserti del pianista Glenn Gould su un vecchio filmato in bianco e nero, rapidi flash-back di un Jack bambino mostrati attraverso immagini sbiadite e mostrate da un vecchio proiettore).

Il continuo alternarsi delle due parti, ed il repentino cambio di stile per quanto riguarda le riprese delle sequenze, conferisce un tono disomogeneo al film rendendone ostica la visione perlopiù spalmata lungo un minutaggio considerevole. La scelta di non ricorrere ad effetti speciali, scenografici, l’assenza voluta di luci e di colonna sonora, rendono il film addirittura più crudo, con un taglio quasi documentaristico.

Se si conosce un minimo la filosofia, il Lars Von Trier pensiero, non si fa fatica a cogliere in Jack aspetti tipici del carattere di LVT. La sua misoginia (Jack dice che le donne sono più “facili” da uccidere, più collaborative, quasi sempre petulanti, spesso stupide). La sua passione per l’architettura teutonica nel periodo delle guerre mondiali, il suo essere un filo filo-nazista… Inutile dire che il film abbia diviso critica e pubblico fin dall’inizio, sia per i contenuti cruenti che per i messaggi filosofici a dir poco scomodi.

Menzione d’onore per uno straordinario Matt Dillon che regge sulle sue spalle l’intero peso del film interpretando la figura di un serial-killer indecifrabile, determinato e inafferrabile.

E così anche io come Jack vivo la mia crisi di coscienza, fortunatamente per aspetti meno tragici e morbosi. Una crisi dettata dalle mie due anime, una pecoreccia, l’altra capish. Eh sì perché a me questo film è piaciuto molto, nonostante la mia parte più ruspante protestasse non poco soprattutto durante le lunghe elucubrazioni mentali di Jack, le parti “noiose” del film ma non gratuite, anzi, propedeutiche e quasi necessarie per veicolare il messaggio di Jack attraverso i suoi omicidi.

CATABASI!

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