Il disco del trombettista jazz hard bop afroamericano Lee Morgan che sto per recensire ha un ritratto di copertina che risulta l´emblema del suo stesso contenuto. La foto, scattata dal grande Francis Wolff con una Rolleiflex F/2.8 in un bianco/nero molto contrastato, ritrae Morgan in primo piano, con un espressione del viso tra il timido e il sorpreso, mentre nel suo sguardo si percepisce la fermezza di chi si accinge a fare una dichiarazione di intento molto netta e determinata.
Il contesto storico è quello in cui gli afroamericani acquisirono piena consapevolezza che era necessario partecipare coesi alla lotta dei movimenti attivisti per ottenere il riconoscimento dei propri diritti civili in un paese bigotto, ipocrita, razzista e segregazionista come l´America degli anni ´60.
“Search for the New Land” fu prodotto e pubblicato da Alfred Lion per la Blue Note (BLP 4169) nel 1966, sebbene fosse stato inciso il 15 febbraio del 1964 allo studio di Rudy Van Gelder a Englewood Cliffs (NJ).
L´album, in effetti, segui a distanza di quasi tre anni “Sidewinder” che, con il suo groove soul-jazz boogaloo, aveva rappresentato il più grande successo commerciale di Morgan, ma soprattutto per la Blue Note, almeno fino a quel momento.
In quel periodo il trombettista, che aveva esordito con i Jazz Messengers di Art Blakey sfoggiando una spettacolare esuberanza nelle esecuzioni, aveva acquisito un grande seguito di pubblico e godeva di buone recensioni dai critici musicali, risultando secondo solo a sua maestà Miles Davis. Tuttavia proprio dopo “Sidewinder”, avendo scritto musica senza troppe pretese, aveva registrato un paio di album mediocri e di scarsissimo successo commerciale, tanto da essere costretto a partecipare come sideman a molte sessioni, pur di fare cassa e sostenere le spese per il rifornimento quotidiano di stupefacenti.
Dal punto di vista artistico questo album voleva essere il superamento del modello compositivo canonico dell´hard bop, strutturato sulla sequenza di melodia – assoli – melodia, stravolgendolo completamente grazie alla successione di varie melodie accompagnate dagli assoli, sostenuti da una sezione ritmica che fa da trait d'union, mettendo sulla stesso piano l´indipendenza espressiva di tutti i musicisti resi completamente liberi di spaziare sulla scala pentatonica.
La stessa Blue Note aveva incoraggiato e sostenuto la ricerca di queste nuove soluzioni stilistiche nell´hard bop, con l´intento di farle risultare reazionarie rispetto all´emergente movimento free jazz, ma il risultato finale fu che le due correnti jazz proseguirono nella stessa direzione lasciandosi alle spalle il classicismo basato sui cambi di accordi e melodie del “vecchio jazz”.
Dal punto di vista del contesto storico, l´album contribuisce a spostare il tema della composizione jazz classica dalla semplice dedica alla donna amata o al musicista scomparso, all´esaltazione delle nazioni africane che avevano appena conquistato la loro indipendenza, oppure alla celebrazione della religione e filosofia dei paesi orientali come nuovo modello ideale da perseguire per ottenere il riscatto sociale e la libertà individuale, spirituale ed artistica.
Si deve considerare anche una terza chiave di lettura per questo disco, molto più intima e personale per l´artista che a 25 anni, da ex enfant prodige e virtuoso dell´hard bop in crisi profonda per la dipendenza dagli stupefacenti, era alla ricerca di una “nuova terra” e quindi di un nuovo se stesso.
La line-up vede Lee Morgan magistralmente affiancato da Wayne Shorter al sassofono tenore; Grant Green alla chitarra; Herbie Hancock al pianoforte; Reggie Workman al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria.
Il disco contiene cinque take scritte da Morgan, tutte di ottima composizione, ma soprattutto tutte in grado di evidenziare la straordinaria coesione artistica del sestetto di musicisti e la loro impeccabile sincronizzazione tecnica come ensamble.
Mi soffermo in particolare sulla title-track che in oltre 15 minuti ci fa assistere alla successione dei quattro assolo di Shorter, Morgan, Green e Hancock, mentre la sezione ritmica di Workman e Higgins tiene le fila del pezzo risucchiando l´ascoltatore in un atmosfera di introspezione e di riflessione che vuole favorire l´esplorazione di nuovi mondi ancora tutti da scoprire.
"Mr. Kenyatta", che apre il secondo lato dell'album, è un omaggio esplicito a Jomo Kenyatta che nel 1964 era diventato il primo presidente post-coloniale del Kenya. Si tratta del manifesto sociale del disco che batte il sentiero già intrapreso da John Coltrane in “India & Africa” e “Ascension”, per ricongiungersi con “Free Jazz” di Ornette Coleman.
Lascio alla curiosità dell´ascoltatore la scoperta delle altre magnifiche tracce (“The Joker”, “Melancholee” e “Morgan the Pirate”) di questo album fondamentale per la musica jazz.
La vita e la musica di Morgan furono spezzate tragicamente una sera di febbraio del 1972, quando in un moto di gelosia Helen Moore, la donna che lo aveva salvato dalla perdizione e lo aveva aiutato a ritrovare se stesso e la via del successo smarrito, lo affrontò armata di pistola nel bel mezzo della sua esibizione col suo nuovo quintetto allo Slug’s Saloon dell’East Village a New York.
In definitiva la ricerca di una “nuova terra”, vera o utopica che sia, costituisce fondamentalmente l´espressione più completa della libertà politica, spirituale ed estetica che i musicisti jazz desideravano raggiungere, e tutto questo, a distanza di tanti anni, può ancora giungere fino a noi grazie alla musica che essi ci hanno lasciato e a tutta quella che essi hanno ispirato.
“Ci sono altri mondi (di cui non ti hanno parlato)” Sun Ra.
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