Tredicesima prova in studio del Cantautore per eccellenza, Popular problems è anche l'unico album del canadese a mancare in questa sede.
L'album fu pubblicato due giorni dopo aver compiuto 80 anni, il 23 novembre 2014. Esso arrivava ad appena due anni dal precedente Old Ideas, mentre per l'album ancora precedente bisognava tornare indietro di ancora otto anni.
Leonard ha pubblicato poche opere, ma sono tutte pressoché perfette. L'attenzione alla parola giusta, la voce calda da crooner americano lo hanno reso inconfondibile. Gli arrangiamenti giusti poi, come il violino in questo, fanno il resto.
I "problemi popolari" di cui Cohen ci canta sono quelli di sempre, ovvero l'amore, la politica, la religione. E lui lo fa con la pacatezza dell'uomo maturo, che non ha bisogno di correre.
E infatti la prima canzone è un elogio della lentezza, "Slow", in cui il cantautore afferma che questa è nel suo sangue. La seconda canzone è "Almost like the blues", dedicata invece alla violenza nel mondo, una violenza dalla quale si vorrebbe sottrarre lo sguardo. Arriva poi l'ottima "Samson in New Orleans", amara disillusione politica cantata divinamente.
"A street", ovvero la strada dove da ubriachi ci si ripara, è un'idea vecchia persino di 13 anni, infatti erano stati gli attentati alle Torri Gemelle a dare l'ispirazione. Il brano è eseguito in tono recitativo, con la strumentazione sullo sfondo.
"Did I ever love you" è una bellissima canzone d'amore, con violino e voce femminile. Una canzone monologo di grande impatto emotivo. Come d'amore, ma questa volta venata di soul, è la successiva "My oh my".
Con "Nevermind" ritorna la tematica politica: si canta infatti di una guerra persa e di un trattato firmato, ma "non importa", come da titolo.
Ma se l'amore e la politica sono i temi portanti, alla fine ci sono due canzoni sulla religione e sul destino. È questo il terzo "problema popolare" di Leonard Cohen.
La trattazione dell'argomento viene affidata a un brano che l'autore ha scritto e riscritto, "Born in chains". Lo stile è quello di un gospel liturgico dove viene aggiornata la sua posizione teologica. Ma vi è anche la conclusiva "You got me singing" a ribadire il concetto, citando, per l'ennesima volta, il suo celebre inno Halleluja.
L'album è stato scritto in coppia con Patrick Leonard, che da un lato sprona Leonard a lavorare più velocemente, ma dall'altro da un punto di vista sonoro e musicale si poteva fare di più, ed è proprio su questo punto che l'album si ferma a quattro stelle.

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