Verranno i pirati. Verranno dal Mediterraneo in fiamme. Si prenderanno ciò che ci ostiniamo a credere nostro. Poi comincerà la caccia e, quel giorno, non ci saranno innocenti.

Jenny dei pirati, Jenny la sguattera, Jenny la puttana camminerà tra di loro e deciderà quali teste tagliare.

Lotte è Jenny, lo è sempre stata.

Ma è anche Polly che ha detto “si” all’uomo sbagliato e Jenny Hill la dolce sgualdrina che non fa sconti, è la moglie del soldato che riceve regali dalle città in fiamme e Venere portata in vita da un bacio, Minny Belle, la Duchessa, Liza Elliott e tutte le altre.

Ma Lotte è anche tutti gli altri: da Mackie Messer l’assassino a Johnny Johnnson il soldato perduto.

Tutti, proprio tutti, i personaggi delle opere musicate da Kurt Weill.

Perché, Kurt, quelle musiche le ha scritte per lei. Pensando a lei ed alla sua voce.

Lei, Lotte, nata Karoline Wilhelmine Charlotte Blamauer in Austria da famiglia povera, forse artisti di circo, forse con un po’ di sangue gitano nelle vene, che aveva cominciato a ballare a 16 anni e che se n’era andata a Berlino a cercare fortuna.

Ed è proprio lì – a Berlino – che Lotte incontra Kurt.

Kurt, il figlio dello chazan della sinagoga di Dessau che aveva studiato con Ferruccio Busoni e che, poco più che ventenne, cominciava a farsi conoscere come compositore d’avanguardia.

Cercava una via tra Mahler e Schönberg, ma la sera suonava il pianoforte nelle birrerie per mantenersi.

Fu grazie a Georg Kaiser, che volle le sue musiche per il dramma “Der Protagonist”, che Kurt incontrò i due più grandi (e tormentati) amori della sua vita: il teatro e Lotte.

Lotte aveva venticinque anni, un mare di capelli rossi ed il fuoco negli occhi. Non era bella, ma era un tizzone che bruciava ed aveva una voce….

Quella voce.

Roca, sgraziata, sguaiata, sensuale, profonda, evocativa, maleducata, lasciva, suadente. Torbida.

Il piccolo ebreo perse la testa.

Erano gli anni venti ed era Berlino e Berlino era il centro del mondo.

Nel bene e nel male.

C’erano Gropius e Fritz Lang, Hindemith e Kirchner, Otto Dix e Max Liebermann, Webern, Pabst, Piscator, Billy Wilder.

Josephine Baker faceva scoprire ai tedeschi il charleston al Nelson-Theater sul Kurfürstendamm, gli espressionisti rivoltavano la realtà come un guanto, la Bauhaus reinventava gli spazi e la AVUS (Automobil-Verkehrs und Übungsstrecke) era la prima autostrada al mondo.

Gli spartachisti erano stati soffocati nel loro sangue ed il putsch di Monaco era fallito.

Ma la Repubblica di Weimar era un esperimento nato morto, un corpo già infettato dai germi della malattia che lo porterà alla morte. Un uovo di serpente che lascia intravedere al suo interno il rettile formato.

A Berlino c’era anche il Novembergrüppe. Kurt ne entra a far parte ed lì che incontra Bertolt Brecht.

Bertolt e Kurt sono nati per lavorare insieme. Poco più di tre anni durerà la loro collaborazione, ma saranno tre anni che marchieranno a fuoco la storia del teatro e della musica del ‘900.

“Mahagonny songspiel”, “L’Opera da tre soldi”, “Happy End”, “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, “I sette peccati capitali”. C’è bisogno di dire altro?

Weill compone per Brecht alcune delle sue canzoni più belle e, giustamente, famose; come “Mack the Knife”, “Alabama Song”, “Pirate Jenny”, “Surabaya Johnny”, “Ballad of the Soldier’s Wife” e le altre. Musiche che vivranno di vita propria fino ad oggi anche slegate dal testo teatrale, che non si limiteranno a creare quell’effetto di “straniamento” teorizzato da Brecht. E che saranno interpretate da geniali jazzisti ed azzimati crooners, impeccabili cantanti d’opera e capelloni rockettari, cantanti leggeri ed attori dalla voce impostata.

E che sono ancora attuali.

Kurt ha trovato quella terza via che cercava tra la canzone e la ricerca, tra Mahler e Schönberg, tra melodia ed atonalità, tra volgare ed eletto. Insomma tra “alto” e “basso”, e senza mai tradire nessuno dei due.

Una via che è solo all’inizio e che lo porterà ancora molto lontano.

E Lotte e lì con lui, è la voce per la quale nascono quelle musiche, con la quale tutti quelli che le vorranno cantare dovranno fare i conti.

Ma quell’ibrido inaudito (nel senso di “mai udito”), quel frutto incestuoso, quella musica così oltraggiosa diventerà pietra di scandalo e arte “degenerata”, quando la Repubblica di Weimar morirà tra i dolori del parto nel dare alla luce il rettile mostruoso che covava nelle sue viscere.

La stampa nazista lo prende di mira: “È inconcepibile che un compositore che produce opere completamente anti-tedesche debba ancora avere l’opportunità di apparire in un teatro sostenuto dalle tasse dei cittadini tedeschi” si legge nel ’32 sul “Volkischer Beobachter”.

"WEILL, Kurt (Curt) Julian, Dessau 2-3-1900 Compositore. Il nome di questo compositore è inscindibilmente collegato con il peggior degrado della nostra arte. Nei lavori teatrali di Weill si manifesta apertamente e senza ritegno l’orientamento anarchico giudaico." Decretò la "Lexicon der Juden in der Musik".

Il Direttore dello State Opera verrà licenziato perché proverà a mettere in scena la nuova opera di Weill e Brecher, che ha diretto la prima di Mahagonny a Leipzig, sparerà a sua moglie e poi si suiciderà.

A Lotte e Kurt non resta che fuggire da Berlino. Nel marzo del ’33 sono a Parigi e poi a Londra.

Kurt continua a scrivere: il balletto “I Sette Peccati Capitali”, le opere “Marie Galante” e “Der Silbersee” e il musical “A Kingdom For A Cow”. Ma l’accoglienza è fredda.

Lotte non vuole più stare in Europa, per lei la prossima tappa è l’America. Ma Kurt è preso dal progetto di scrivere insieme a Max Reinhardt un lavoro sul destino degli ebrei: “The Way of the Promise”, che poi diventerà “The Eternal Road” e verrà rappresentata a Broadway. Kurt, ateo e comunista, sta riscoprendo l’ebraismo a causa delle persecuzioni naziste.

E Lotte se ne va.

I due divorziano. Kurt resiste due anni e, poi, se la va a riprendere lì in America

Si risposano nel ’37 e non si lasciano più, fino alla morte di Kurt. Anche se Lotte lo tradirà col commediografo Paul Green.

In America non è facile: Kurt è quasi sconosciuto come musicista ma ha fama di comunista. E poi le condizioni del mercato musicale e teatrale sono diversissime: Kurt dovrà fare i conti con le regole di Broadway ed Hollywood.

Ma diversi compositori e musicisti lo apprezzano, tra questi George Gershwin che lo inviterà alla prima di “Porgy and Bess”. Compagnie teatrali di sinistra come il Group Theatre di New York lo accolgono favorevolmente e gli commissionano lavori, come “Johnny Johnson”. Così Kurt riprende a lavorare ed a scrivere.

E’ la sua terza vita.

Kurt prende la cittadinanza americana e diventa autore di musicals e di musiche per la radio.

All’inizio non va: “Johnny Johnson” e “The Eternal Road” sono accolti freddamente. Ma è solo l’inizio. Ben presto i suoi spettacoli sbancheranno il botteghino. “Knickerbocker Holiday”, “Lady In The Dark”, “One Touch Of Venus”, “The Firebrand Of Florence”, “Street Scene” sono tutti successi e contengono canzoni bellissime come “Speak Low” o “September Song”.

Ed è sempre Lotte a cantarle per prima.

Qualcuno, però, storce il naso. C’è chi vede in quella trasformazione una resa alle logiche del consumo e del facile intrattenimento. L’allievo di Busoni, il sodale di Brecht, l’incendiario che aveva sventrato le regole del lied era diventato un innocuo intrattenitore?

Sciocchi.

A parte il fatto che lavori come “Down In The Valley”, “Love Life”, e “Lost In The Stars” introducono elementi di innovazione e ricerca, assolutamente rivoluzionari per gli standards dell’epoca, come non capire che dalla “Sinfonia n.1” al “Concerto per violino e fiati op.12” agli altri lavori degli anni ’20, passando per le musiche per il teatro dei suoi anni europei, fino a giungere alla sua produzione “americana” c’è una crescita, una continuità ideale, un disegno coerente?

Weill sta tirando fuori la musica occidentale del ‘900 dalle secche nelle quali l’avevano impantanata l’obesa magniloquenza di Wagner e l’autismo ombelicale delle avanguardie.

Weill ha tracciato una strada su cui si incammineranno visionari e coraggiosi (ed anche molti tipi strani e qualche cattivo elemento) come i Residents, John Cale, i Can, LaMonte Young, Lou Harrison; ma anche seriosi compositori come Stockhausen e Nono, o inclassificabili come Morricone e Zorn e tanti altri che cammineranno in bilico fra popolare ed elitario, tra colto e volgare, tra pop e classicità.

Come Kurt, ma raramente ai livelli di Kurt.

Quelle canzoni finiranno in bocca a gente come Billie Holliday ed Ella Fitzgerald, Frank Sinatra ed Ava Gardner, Jim Morrison e Lou Reed, Ute Lemper e Barbara Hannigan e tanti, tanti altri (Nina Simone, Marianne Faithfull, Dagmar Krause, PJ Harvey, Luis Armstrong, Bowie, Domenico Modugno, etcetera etcetera). A loro agio in un club jazz come in un teatro d’opera o sulle assi di un concerto rock.

Musica universale.

E, forse, avrebbe divertito Kurt il vedere quei giovanotti con chitarre elettriche e batterie rifare le sue canzoni.

Ma Kurt non lo potè vedere: uno stupidissimo infarto se lo porta via a soli 50 anni, ancora nel pieno della sua maturazione. Chissà cosa avrebbe ancora immaginato? Invece quella musica si è persa tra le stelle.

E’ rimasta Lotte a conservare ed a gestire quella musica. E lo fa con decisione e fiero cipiglio. Persino Luis Armstrong dovette avere il suo placet per aggiungere le parti improvvisate di tromba alla sua versione di “Mack The Knife” (che canterà in coppia con la stessa Lotte).

Lotte le incide quelle canzoni. E vale la pena di procurarsi almeno qualcuno di quei dischi, per sapere come è che quelle canzoni andavano cantate. Io ti consiglio questo “Lotte Lenya Album” del ’70, perché è un po’ meno difficile da trovare, è ben registrato e non si limita alla sola produzione brechtiana come altri lavori a suo nome. La voce ha acquistato in maturità quello che ha perso in freschezza e sfrontatezza, ma è sempre “quella” voce. Occhio, però, ché la versione in CD ha un titolo diverso (perché poi?).

E poi Lotte ha fatto anche altro: tipo risposarsi, recitare e scrivere per il teatro, vincere premi, ed anche del cinema.

Hollywood non l’ha amata molto, per la verità, ma la sua interpretazione ne “La primavera romana della signora Stone” le vale una nomination agli oscar.

Ma tutti noi l’abbiamo vista, senza sapere chi è, in un altro film, quando, nei panni della crudele dominatrix con tendenze lesbo, Rosa Klebb, cerca di fare la pelle a James Bond con un coltello avvelenato ficcato in una scarpa (un coltello in una scarpa!) in “Dalla Russia con Amore”.

E qualcuno storcerà il naso.

Di tutta quella storia, di tutta quell’Arte, l’unica cosa che viene ricordata, l’unico - vero – momento di gloria è la partecipazione ad un film di Bond?

Non siate sciocchi.

Guardatela, Rosa, mentre balla goffamente con la sua ridicola arma, cercando di uccidere quello stronzo di un cicisbeo impomatato di Bond.

E’ sgraziata, sguaiata, sensuale, crudele, maleducata, lasciva, indomita. Torbida.

E’ Jenny. E’ sempre lei Jenny la puttana, la sguattera, la traditrice.

Rosa Klebb è Jenny dei pirati.

Verranno i pirati. Verranno dal Mediterraneo in fiamme. Dalla Siria e dal Marocco, dalla Nigeria e dal Maghreb, e da più lontano. Dall’Asia, dai mari della Cina, dall’Oriente. Da tutti gli Est e i Sud del Mondo.

E si prenderanno ciò che crediamo nostro, cammineranno per le nostre strade, scoperanno con le nostre donne, storpieranno la nostra lingua. Distruggeranno le nostre Cattedrali. E mischieranno le loro divinità con le nostre, festeggeremo il Natale, il Ramadan, Halloween e Seollal. Per le strade giocheranno bambini di mille colori.

Ed avremo un presidente nero con un nome strano.

Il Mediterraneo sta già bruciando.

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