Mi sono avvicinato a Laura Pergolizzi con tutte le cautele dovute alle mie fissazioni musicali, come una certa diffidenza per le voci che non mi catturano all'istante e una scarsa fiducia nei prodotti musicali pop americani. Poi essendo un orfano della Winehouse per anni in attesa di un'epifania che mai arrivava (i fan di Adele bussino pure all'ufficio reclami), scetticismo misto a speranza hanno sempre caratterizzato le mie valutazioni di queste cantautrici anglofone. Ma il talento è un attrattore irresistibile e sebbene questo scricciolo di artista non sia né una cantante soul né R&B, le mie discutibilissime cautele sono venute meno.

Churches è la sesta uscita di inediti di LP, dopo una carriera iniziata anche come autrice per altri artisti e poi proseguita con sole esperienze da solista. A dimostrazione che esiste ancora chi in ambito artistico fa la gavetta, come noi nostalgici musicofili auspicheremmo un po' per tutti. È indispensabile definire subito il perimetro di questa breve analisi. L'album presenta la Pergolizzi per quella che è, per chi già la conosce. Non ci sono novità sostanziali, né nella sua scrittura, né nelle interpretazioni, anzi, tutte le caratteristiche del suo stile ben definito sono presenti. Ascolterete pertanto le sue note più strazianti, la vocina alla cartoons, i fischiettii, i cori angelici, l'incedere western. Mi verrebbe da insinuare che sia anche difficile calarsi nel mood del disco, vista la singolare personalità di LP, ma a scanso di equivoci, lei è sempre così dentro a ciò che canta da coinvolgere chi ascolta, indipendentemente dalla capacità di comprensione o condivisione dei testi.

I quattro singoli che hanno anticipato il lavoro li abbiamo già ascoltati nei mesi scorsi nelle nostre radio, dove forse per le evidenti origini, la nostra trova molto spazio, contrariamente a ciò che le accade in madre patria dove di fatto non ha mai veramente sfondato. Tutti buoni pezzi, soprattutto l'ultimo Goodbye, che si fa notare per la freschezza compositiva. Quattro anticipazioni spalmate addirittura su un anno indurrebbero a ritenere l'album in grado di offrire al massimo qualche altro buon brano e poi tutti riempitivi. Invece quello che spicca dopo alcuni ascolti è la straordinaria vena melodica di LP, che infila quindici brani praticamente senza riempitivi e con un paio di perle assolute per il suo repertorio. My Body nelle mani di artiste più blasonate avrebbe tutte le carte in regola per essere una nuova Rolling Into Deep...e qui volutamente infierisco; è un pezzo soul che sembra uscito dalla scuola Motown, un esempio di indiscussa bravura, cantato con una grande intensità. Angels, per quanto non sia esattamente il genere che mi piace sentirle cantare, è un gran bel pezzo, indicato da lei stessa come il suo più riuscito del disco.

Esiste tuttavia qualche nota dolente, come quella che mi ritorna alla mente quando ascolto dischi pop degli ultimi anni e cioè una scarsa originalità. Perdoniamo alla nostra Laura l'aver "rubacchiato", nientedimeno che al nostro Francesco Di Bella, l'intro di Yes, abbassandolo di qualche tono. Ma bisogna pur rendersi conto che nel pop l'originalità è sempre più merce rara e spesso la composizione si risolve in rielaborazioni originali di cose già sentite. C'è inoltre un difetto interpretativo di LP che restituisce all'ascoltatore, alla fine del disco, la netta sensazione di aver ascoltato troppe urla. Forse tenere a freno l'indole inquieta potrebbe giovare alle sue qualità canore. Non bastano a placare le forti vibrazioni sonore che LP ci impone le due belle e mistiche canzoni finali: Churches, intima come non mai e Poem, breve chiusura strumentale e parlata.

Dubito che LP diventerà mai una star. Non è più giovane, non è particolarmente attraente (mi si perdoni l'eufemismo), non sembra particolarmente sorretta da casa discografica e industria musicale. Però in giro autrici e intrepreti come lei, in questi tempi ancora ricchi di prodotti plastificati, ce ne sono poche. Perciò a lei va tutta la mia stima e soprattutto la mia disponibilità all'ascolto, cosa che io ritengo un dono che ognuno di noi fa a chi produce musica, in tutte le forme.

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