Luciano Bianciardi fu, fra gli scrittori e giornalisti italiani dello scorso secolo, un atipico ed un irregolare; il suo essere atipico ed irregolare lo avvicina, anche nella sfortuna di una morte precoce seguita da un rapido oblio, ad autori come Morselli e, soprattutto, Mastronardi, cui potremmo associarlo nella capacità di leggere in anticipo limiti e storture del boom economico, preconizzando la china discendente ed autodistruttiva di un Paese in cui il progresso e la ricchezza erano definiti dal PIL, anziché dalla complessiva qualità della vita o dal livello di crescita spirituale  e culturale dei singoli rispetto alle generazioni precedenti.

Bianciardi seppe, insomma, diagnosticare i mali del nostro paese con la "spaventosa chiaroveggenza" che Gozzano attribuiva a Totò Merumeni, forse un po' prima di Pasolini: e, certo, senza la fede umanistica del cattolico Pasolini; che del resto fu ucciso per eccesso di fiducia nel prossimo, mentre Bianciardi, Mastronardi e Morselli, pur in modi diversi si suicidarono, o direttamente, o, come per il Nostro, cedendo all'autodistruzione, "autonti-meroùmenos", per chiudere il cerchio aperto con il riferimento al poeta decadente piemontese.

La lettura del fenomeno, da parte di Bianciardi, non fu allegorica, e, per quanto il nostro fosse indubbiamente dalla parte dei deboli (intesi come operai, o comunque gli sfruttati-malpagati, alla Rino Gaetano), sembra prevalere, nella sua scrittura, una diagnosi nichilistica e priva di speranza, oltre che di orpelli letterari: in questo, la scrittura di Bianciardi si pone ad un livello diverso da quella di un Calvino, che, nel coevo "Marcovaldo", descrive più o meno le stesse vicende, cogliendo i problemi dello stesso periodo storico, ma con un piglio diverso, in cui un certo residuo tardo illuministico (oggi diremmo: radical chic) lascia sempre aperta alla speranza una piccola fessura.

Nel suo essere positivo, ottimista, seppur malinconico, Calvino resta scrittore per tutti, in quanto lascia a tutti l'illusione della speranza, e non a caso negli scaffali dei libri dell'Auchan di Monza lo trovo in bella mostra ogni sabato, mentre di Bianciardi non posso dire lo stesso.

Entro queste coordinate si può dunque intendere il senso de "La vita agra", principale opera di Bianciardi e suo - ironia della sorte - più grande successo professionale; opera che lanciò lo scrittore grossetano nel fugace e transitorio empireo dei grandi scrittori italiani in un'epoca di incisive trasformazioni, come, appunto, gli anni '60 dello scorso secolo.

Il libro - non lo definirei certo romanzo, forse reportage semiautobiografico - è privo di una trama lineare, e dunque richiede al lettore lo sforzo di immedesimarsi nell'Io-narrante, giovane letterato che lavora essenzialmente come giornalista e traduttore, entrando sempre in rotta di collisione con i colleghi ed i propri superiori, a causa del suo indomito spirito libero.

Seguiamo così il protagonista nei suoi vari tentativi di sbarcare il lunario con differenti lavori, nei suoi fallimenti sentimentali e nel suo desiderio per le donne, che in parte sembra placarsi quando nasce un amore, seguito dalla convivenza, con una giovane amica. Tutto ciò nel contesto urbano della periferia milanese di fine anni '50, già descritta - e qui sta la grande modernità dell'autore - come una specie di "non luogo" in cui la stessa distribuzione degli spazi allontana le persone, spezza il solidarismo delle famiglie contadine di un tempo e lo spazio conchiuso della corte e del villaggio, fino al punto che attraversare un incrocio per andare a prendere le sigarette o il giornale dall'altra parte della strada sembra il guado di un fiume, di un passo montano, di un confine.

Interessanti anche le descrizioni della varia, affrettata, solitaria umanità che Bianciardi incontra mentre si sposta in bus per la città, o l'ironica lettura della vita delle "segretarie" dei vari studi o delle imprese del centro di Milano, colte fin dalla camminata come delle piccole regine senza trono, capaci di influenzare con i loro umori i propri superiori, per certi aspetti piccole campionesse della dissimulazione di un potere che, per quanto piccolo, per quanto in apparenza secondario, può essere enorme: quasi che l'ultimo degli ingranaggi possa bloccare l'intero motore dello sviluppo economico, rifiutandosi di spedire una raccomandata, o sbagliando indirizzo.

Una sapida rilettura dei "tempi moderni" di Chaplin, dunque, nella quale può cogliersi, nel sotto-testo, anche una sottile sfiducia per l'emancipazione della donna, almeno laddove essa non può che avvenire "dentro" uno schema economico predefinito, come quello del nascente capitalismo italiano: se ogni liberazione e parificazione fra sessi passa necessariamente attraverso l'indipendenza economica della donna dall'uomo, è proprio il percorso di emancipazione - fatto di lavoro, sacrifici e sforzi vari - a trasformare la donna stessa, avvicinandola, nei bisogni e negli schemi mentali indotti dal sistema capitalistico, all'uomo da cui cerca, a questo punto vanamente, di differenziarsi.

Bianciardi non risparmia neppure la famiglia, nella sua cellula embrionale, data dalla semplice, e per l'epoca "scandalosa", convivenza more uxorio fra lui e la sua compagna: le pagine del libro in cui viene descritta l'angusta stanzetta che i due dividono, la povertà e lo squallore in cui sono inseriti resta sempre angosciante anche per un' "irresistibile romantica" come me. E, a proposito di Vasco, come segnalavo qualche tempo fa ai ragazzi del corso di lettura, è interessante il parallelismo fra la vena poetica di Bianciardi e quella del cantautore modenese: "La nostra relazione" sembra presa pari pari da "La vita agra", dove canta: "ci limitiamo a vivere dentro nello stesso letto/un po' per abitudine e forse un po' anche per dispetto".

Questo libro mi sembra, quindi, una lettura davvero consigliata per tutti, stando però attenti a non confondere i piani di lettura. Bianciardi è un fenomenale analista, un eccellente scrittore e, direi, quasi un perfetto sociologo, ma come tutti gli osservatori il rischio è quello di scambiare la propria prospettiva come una prospettiva oggettiva, ed universale; ed al contempo di trarre da quanto osservato una regola di comportamento, relativistico e nichilistico Insomma, il rischio è quello di un passaggio dalla "impotenza del dover essere" (intesa come impossibilità di scelte di valore) al "dover essere dell'impotenza" (nessuna scelta di valore va fatta). Come sapete, questo non è il mio punto di vista; ma credo non possa essere nemmeno il punto di vista augurabile ad altri uomini e donne, visto che seguendo la china di una vita agra, non resta altro che un sapore acidulo in bocca.

In ciò, la lettura di Bianciardi può essere colta soprattutto nel suo essere una puntuale ed inattaccabile diagnosi di una malattia della nostra epoca, i cui semi piantati nel dopoguerra sono giunti a piena maturazione in questi ultimi venti anni: colta la malattia, occorre dunque pensare alla cura, se non si vuol cedere al nulla, cercando di riscoprire valori autentici e modelli di sviluppo della persona umana diversi da quelli giunti ad evidente fallimento, ma anche da quelli puramente giocosi ed intellettualistici di un Calvino, o da quelli reazionari di un Pasolini.

E' una via difficile, costosa, certo più impervia di chi si balocca a fare l'intellettuale maudit, il border line, il contestatore ed il perditempo in genere: ma mi sembra l'unica via percorribile.

Un sereno abbraccio a tutti e buona lettura!

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