Si, si, deve essere andata proprio così, non si spiega altrimenti: Lucio ha visto gli abissi che si aprivano sul futuro e ha deciso di salutare per la sua salute mentale. Dopo “Viaggi Organizzati” ha deciso di trasformarsi nel cantante nazionalpopolare che va da Baudo ad ammonire la gente sui vizi del lupo, capace di scrivere ancora ballate che cantano l’amore in modo sublime, addirittura di entrare nella legenda della melodia dello Stivale con “Caruso”, ma quello che era iniziato con “Come è profondo il mare” e che si era consolidato con i due (capo)lavori successivi - prima del passo falso del precedente “1983” – dopo il recensito non avrà più seguito. Probabilmente a causa del progressivo estinguersi del “viaggatore fai da te” a favore del tutto organizzato, pianificato, confezionato, introiettato, predigerito, e defecato sulle nostre teste!

Dopo gli inizi dei ’60 e la collaborazione con Roversi, l’esordio di Lucio come paroliere ha messo subito in chiaro che ci troviamo di fronte ad un autore eccezionale che solo il “genio italico” poteva partorire. Dalla si rivelerà autore capace di servirci un cocktail di sentimenti, eccentricità e humour in grado di scandagliare vizi e virtù dell’umano (soprattutto del Belpaese) con un taglio cinematografico che sottende una regia, una costruzione ed un montaggio insito nel suo modo di scrivere. Una semplicità apparente in un miscuglio di lingua colta, sintassi parlata e dialetto che riesce ad avvicinarlo alla gente comune. Tanto che se dovessi pensare ad un’opera in grado di descrivere l’Italia in modo schietto e fuori dai cliché ciò che mi verrebbe in mente è un film scritto da Pasolini con Sordi mattatore e con le canzoni di Lucio. Perché Dalla è il cantautore che più di tutti offre una lettura alternativa, scava nell’animo fino a logorarlo, coltiva la memoria e la proietta nel futuro con le sue canzoni sempre stralunate, ironiche e al tempo stesso cariche di profonda e umana visionarietà.

E, con la leggendaria tripletta (“Come è profondo il mare”, “Lucio Dalla” e “Dalla”), ha messo davanti allo specchio un intero paese alle prese con un decennio di contraddizioni nate dalle illusioni del '68 incancrenite negli anni di piombo. Un'epoca in cui “si esce poco la sera”, popolata da individui che vivono in metropoli disumane dove un terrone, un cane e un bambino rubano del tonno, un salame e una banana e, sullo sfondo, “un cartellone con uno scudo crociato e una stella cometa fanno pubblicità da un muro a una dieta”. Dove i potenti ingiuriano il “mare” lo vogliono bruciare, uccidere, umiliare ma trovano ancora una certa resistenza nell’esempio della generazione, all’epoca ancora “carne viva”, che ha superato due guerre mondiali e che ha provato a mettere in piedi un patto sociale. Anche se “dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce”, si può ancora sognare nelle dolci ore di una “Sera dei miracoli”. Si può ancora sperare: “Di sentire una voce/Aspettiamo senza avere paura, domani”.

Ma in “Viaggi Organizzati” questa capacità, contemporaneamente descrittiva e divinatoria, porterà alla luce una realtà spaventosa. Se volete capire cosa ha visto il buon Lucio, il mio consiglio è quello di prendere subito un pugno nello stomaco, dribblare il riff (geniale) dell’introduttiva “Tutta la vita”, saltare anche quel capolavoro funky/pop di “Washington” e andare dritto dritto alla conclusiva “Tu come eri”: “Avremmo potuto guardarci negli occhi invece di perdere la testa. Invece i miei occhi li ha presi il tuo computer, il tuo cuore, il mio televisore”.

Quelli che “Si guardavano negli occhi mentre passavano due guerre/Si tenevano la mano/Per non lasciarsi mai” sono morti o si sono ritirati a vita privata. Adesso si vive sotto un cielo con gli angoli, soggiogati da un progetto, da un calcolo “Chiudi gli occhi/T'innamorerai”. Potrai “Giocare con il cuore elettrico accenderti spegnerti accenderti …” di fronte a “quella faccia bianca e quegli occhioni blu/Che non si chiudono mai”. Nella title-track regna un pessimismo cosmico: fine di un’epoca e controllo sociale su tutta la linea.

Nel 1984 l’umanità è definitivamente alla deriva soggiogata dalla tecnologia che inizia a prendere il sopravvento. La speranza o, se volete, l’illusione è finita. La gente si è rotta i coglioni anche dell’eccezionale: il cosmo è diventato un posto di lavoro come altri, siamo fottuti! Prendete “Stornello”, storia di un astronauta che torna a casa dallo spazio per Natale: quello che è eccezione qui diventa quotidianità. Inoltre, la compagna cui l’impiegato spaziale racconta la storia del Natale fa finta di dormire pur di non ascoltare: non si comunica più. Ma che andassero a cagare anche le stelle!

Il genio visionario del batufolo di peli bolognese non si ferma ai massimi sistemi ma prevede il futuro italiota in “Toro”, il prototipo del Lacerenza/maranza che tenta di entrare in discoteca, fugge e poi si stravacca sul divano a vedere la TV con un Rolex d’oro ed un telecomando per non cambiare mai in un eterno e truzzo giovanilismo.

E poi oggi, grazie a Putin, Trump e a tutti gli idioti che stanno al potere, è tornato prepotentemente di moda agitare lo spettro nucleare, il che fa di “Washington” un testo contemporaneo permeato com’è di un alone alla “Blade Runner”, in cui visioni postatomiche di un mondo raso al suolo si intrecciano con mutazioni possibili di umanoidi che si montano si smontano e si sparano fra loro.

Forse, lo scarso successo di pubblica e di critica di “Viaggi Organizzati” è da attribuire più alla musica che ai testi. Ricordo ancora il polverone suscitato da questo lavoro, come da altri che ne condividevano la sorte in quegli anni di synth/pop imperante. Personalmente non ho le competenze per disquisire sulla produzione musicale ma posso dire che l’ho sempre trovato diverso da tanti altri lavori dell’epoca che seguivano la moda dei suoni della new wave. Quello che so l’ho letto e narra della volontà di usare nuovi strumenti e arrangiamenti minimali dopo aver ascoltato Laurie Anderson e l’uso che questa fa del Fairlight. Inoltre, un grande merito va al produttore Mauro Malavasi. Quello che provo ascoltandolo oggi è un lavoro che non lo limita all’epoca della pubblicazione come invece accade con altri lavori italiani degli anni ’80: niente elettronica usa e getta ma il tentativo, per me riuscito, di coniugare la sensibilità del cantautore e il calore delle melodie di cui è capace con la freddezza dei suoni elettronici e le dissonanze sintetiche.

E tra elettronica sperimentale, fredda e minimale infilata nella musica italiana siamo arrivati alla fine, siamo al “limite fisico del racconto”; neanche l’ironia ci può salvare: “Bello quel tuo sorriso mongolo, vuoi sapere come ti sta? Sembra l’uscio di un cesso pubblico—ecco come ti sta”. “Non mi fa più ridere niente”. E allora? Allora non ci resta che sperare in un’altra vita: “Fra poco finiranno le nuvole, non voltiamoci”. Lucio ha deciso, indossa la camicia di velluto e ci saluta. Ciao Pippo.

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