Correva l’anno 1966 e Tenco aveva questo bel brano nel cassetto, ma non si decideva a registrarlo in studio non trovandolo adatto alle sue corde, probabilmente non abbastanza impegnato ed amaro per la sua vena intimista e polemica. Forse non accettava del tutto i contributi al testo fornitigli dal sempre attento, attivo, ambizioso e mai disinteressato paroliere Mogol, il quale in ogni caso riuscì una sera a trascinarlo in uno studio milanese e fargli incidere questa chicca, pianoforte e voce e nient’altro (insieme ad un’altra trascurabile canzone di cui non mi sovviene il titolo).
La canzone in questione è impeccabile, fra le sue migliori: poche parole per descrivere, in maniera asciutta e semplice, quel grande tema di vita che è il perdono in amore, una prova che prima o poi capita a quasi tutti di dover sostenere, e possibilmente superare se si vuole andare avanti e star sereni, senza troppi malanni psicologici e magari psicosomatici; la melodia si appoggia su un fine ondeggiamento fra accordi in maggiore e minore che dimostra come sempre la grande preparazione e sensibilità del rimpianto compositore piemontese.
Nel febbraio dell’anno successivo Tenco muore, sparato, durante il Festival di Sanremo in circostanze ampiamente sospette e generosamente nebbiose come d’uso in Italia. Senza voler tranciare giudizi qualunquisti, alla distanza dai fatti che può ed è costretto ad avere l’uomo della strada, la mia personale sensazione è che la collega Dalida, con cui aveva in quei giorni una storia e che gli faceva compagnia in albergo, c’entrasse di brutto (non per niente provò ad ammazzarsi, riuscendoci infine ma… vent’anni dopo!) e un qualche grande faccendiere (se ne trovano sempre qui da noi) avesse adattato le cose per bene per salvare le chiappe alla cantante e soprattutto allo show che must go on, manovrando verso un ipotetico male minore ossia far passare Luigi per uno psicolabile che si uccide perché la solita cagata cantata dalla Berti (nell’occasione “Io tu e le rose”) va in finale mentre la sua “Ciao amore ciao”, una bella storia di emigrazione e di lontananza affettiva, viene eliminata dalla giuria. Bah.
Tenco non c’è più ma il carrozzone andò cinicamente avanti e così la canzone affiorò ufficialmente in pubblico alla manifestazione Disco per l’Estate del 1967, cantata in maniera competente anche se certamente ben meno emozionante dalla voce se non altro intonata e solida di Wilma Goich. Per la cronaca si classificò terza, preceduta da due immancabili scempiaggini stavolta interpretate da Jimmy Fontana e da Gigliola Cinquetti.
Sempre il carrozzone andò ancora avanti perché di gente come Mogol è pieno il mondo e l’interpretazione originaria dell’autore non tardò ad essere pubblicata, malauguratamente devastata da un arrangiamento orchestrale e corale manieroso e ottuso, con intarsi di trombette mariachi messicane e coretti 4+4 di Nora Orlandi insulsi, una roba che se Tenco fosse stato ancora vivo non avrebbe l’permesso mai e poi mai… quasi meglio ascoltarsi la versione della Goich! Negli anni poi è arrivata pure il solito squillante prezzemolo Mina a farci un giro, colei che da casa sua a Lugano ha coverizzato tutto ma proprio tutto… le mancano giusto i Limp Bizkit e Tony Tammaro.
Tenco era un grande, ma proprio un grande… una vera disdetta che la sua vita e la sua musica siano state interrotte a ventinove anni: meritava una carriera alla Lucio Dalla o De Andrè, ne era perfettamente all’altezza.
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