L'Arte della Guerra (parte quarta)
Le risibili beghe messe in scena dai nostri politucoli nazionali che tanta parte hanno in quei luridi calderoni ribollenti di occhi di tritone, urina di ratto e altri ingredienti di infimo rango volgarmente chiamati "talk show televisivi".
La cialtroneria congenita e la miopia manifesta di cui sono pregne le chiacchiere dei cosiddetti "uomini della strada" che millantano preziosi quanto originali carotaggi nel cuore pulsante della contemporaneità giustificati dalla loro inestimabile esperienza di vita dimenticando che "esperienza" può anche semplicemente significare "reiterare un errore per molti anni".
Beh, è facile: provo disgusto, un sommo disgusto.
Ma perché?
Non certo perché mi credo chiuso e ben protetto nella e dalla mia (inesistente) torre d'avorio da cui, con occhio sdegnoso, osservo dall'alto della mia superiorità morale l'indecoroso spettacolo delle miserie umane contrabbandate dall'ipocrisia o dal qualunquismo. Prima di ogni altra cosa io sono un figlio del popolo: sarei quantomeno un completo idiota se non mi interessassi per nulla di tutti i problemi (di quelli "prosaici" innanzitutto) che funestano i nostri giorni.
Non certo perché mi consideri "apolitico". Non credo sia possibile essere "apolitici": noi scegliamo con tutti i nostri pensieri, parole, opere ed omissioni e dalle scelte si desumono gli orientamenti.
Lo scopo principale dei talk show non è informare, ma intrattenere. Quello delle chiacchiere di strada non è condividere, ma accarezzare l'ego.
Cosa rimane? Il silenzio. Oppure, cosa ben più difficile, la radicalità.
Sono disgustato da tutte le sovrastrutture o da tutte le questioni di lana caprina a cui immancabilmente si ricorre per discutere di ogni massimo sistema e l'ordinamento sociale, politico ed economico della vita umana sulla Terra lo è, o lo dovrebbe essere.
Io saprei dire qualcosa di originale sull'argomento? No. Mi manca l'intelligenza e la preparazione.
Allora scelgo il silenzio.
Anzi no, scelgo la radicalità.
E allora vi cito Engels in cui mi sono imbattuto leggendo una "parabola" di Svevo riguardante la trasformazione di una comunità nomade in una stanziale.
"Il potere di questa comunità naturale doveva essere infranto; e infatti lo fu. Ma fu infranto da influenze che ci appaiono fin dal principio come una degradazione, come una colpevole caduta dalla semplice altezza morale dell'antica società gentilizia. I più bassi interessi - volgare avidità, brutale cupidigia di godimenti, sordida avarizia, rapina egoistica della proprietà comune - inaugurano la nuova società incivilita, la società di classi. Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa".