Manfred Mann's Earth Band è un gruppo inglese, fondato nei primi anni settanta e capitanato dal tastierista (di origine sudafricana ma trapiantato a Londra sin dall'infanzia) Manfred Mann. Quest'occhialuto e corrucciato musicista aveva già conosciuto il successo negli anni sessanta, con un gruppo beat a suo nome, molto derivativo sulla scia di Beatles e Monkees. Dopo un breve periodo oscuro, è riuscitoinfine a riciclarsi e stabilizzarsi nel panorama musicale con questa formazione, grazie alle sue notevoli e particolari caratteristiche musicali.

Mann è in effetti musicista con precise virtù e precise carenze. Fra le prime vi è l'essere sommo arrangiatore e strutturista di brani, nonché grandissimo solista di sintetizzatore (il migliore, azzarderei). La sua carenza principale è invece quella di essere modesto compositore. Intelligentemente, la Manfred Mann's Earth Band è allora stata impostata, da subito e per tutta la carriera, essenzialmente come cover band. In quest'album, infatti, solo due delle sette canzoni comprese sono inedite.

E' a questo punto che viene fuori l'ottima rispettabilità e valenza di questa formazione: lungi dal replicare gli arrangiamenti e le atmosfere primigenee, i brani originali vengono sempre stravolti, sia ritmicamente che strutturalmente, nonché arricchiti e gonfiati di buoni ormoni musicali, situazioni armoniche, efficaci fughe in assolo del leader oppure del suo chitarrista Dave Fleet. Ne deriva, nella maggior parte dei casi, una vera rifioritura della canzone originaria, sottoposta ad una cura ricostituente che ha talvolta del miracoloso, dato che questo processo di "coverizzazione creativa" viene applicato giammai a famose pagine della discografia rock, bensì a brani di media se non addirittura oscura fama.

E' il caso dell'episodio di punta di questo disco, quella "Davy's On The Road Again" scritta da un paio di componenti della Band, ma mai da loro registrata, costretta così ignominiosamente ad uscire in un album solo di uno di essi, John Simon. L'Hammond chiesastico di Mann, così settantiano e vibrante, introduce il brano che poi si rinvigorisce con la ritmica a terzine, capace di dare rilievo ancora maggiore alla bella melodia, così odorosa di festival all'aperto, di Woodstock generation, del pop di una volta, quello senza computers e campionamenti.

L'acume di Mann nello scegliere i brani da reinterpretare (e gagliardamente stravolgere) lo spinge a dare priorità al repertorio di grandi songwriters che però non siano affatto arrangiatori: Bob Dylan è l'esempio più eclatante possibile di questa categoria, quindi il bersaglio preferito della Earth Band ed infatti in questo disco troviamo la sua "Mighty Queen" (per inciaso, già nel repertorio dei Manfred Mann sessantiani), in una versione dal vivo dilatata ed intensa. Alla maniera di "All Along The Watchtower" nel caso di Hendrix, questa pagina dylaniana è letteralmente fatta propria da Mann, facendo sparire ogni traccia della marcetta folk del vecchio Bob, tramutata invece in un pop rock con retrogusto progressive, robusto e deciso. Anche perché alla voce non c'è ' l'afono menestrello americano, bensì il grande cantante del gruppo che risponde al nome di Chris Thompson: timbro potentissimo, solido e ieratico, questo vocalist ha fama inversamente proporzionale alla sua bravura. Interpretato da lui, tutto il repertorio della band, pur nella sua certa leggerezza pop di base, si imbeve di tensione ed energia.

Queste sue qualità trovano ulteriore conferma nella trascinante "'Martha's Madman", la mia preferita del lotto, una cavalcata spettacolare condotta al galoppo dall'abile bassista della formazione Pat King, intorno al quale tastiere e chitarre si scatenano scambiandosi gli assoli, dopo che Thompson ha seminato il panico col suo vocione sonorissimo.

Fra le composizioni originali "Drowning On Dry Land" ha un bel piglio, col timbro deciso di Thompson che descrive una bella melodia sopra le chitarre acustiche, poi il tutto si perde un poco nella coda strumentale dotata di proprio titolo: "Fish Soup". "Chicago Institute"appare invece del tutto trascurabile, anche nel testo che contrappone l'aperta California alla dura e disumana Chicago. A proposito di California, la chicca dell'album prende il nome da questo celebre stato ed è una composizione di certa Sue Vickers (e chi è?!), un tentativo di ballata country rock alla quale la voce rumorosa del cantante e soprattutto lo splendido assolo in outro del synth di Mann, impediscono di arrivare pura e innocua alla meta. La creatività di Manfred Mann si scatena dopo che i suoi due chitarristi (anche Thompson dà una mano colla ritmica e qui si ritaglia un botta e risposta con Fleet) hanno fatto la loro parte: grande espressività, grande uso della "rotella" a fianco della tastiera, in grado di alterare e far vibrare il suono, splendidamente analogico e "grosso", del vecchio e glorioso minimoog.

Per chiudere con le citazioni dei brani, in apertura dell'album vi è infine "Circles", resa interessante nuovamente dall'intepretazione di Thompson, il quale prima parte in falsetto e poi, alla seconda strofa, spinge a voce piena, sulla stessa tonalità, mandando il pezzo al piano di sopra.

Manfred Mann è un grande tastierista, il suo gruppo dignitoso ed interessante, "Watch" (ottavo album, 1978) fra i suoi dischi più riusciti e freschi.

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