“Questo film mi ha un po' deluso”. Stava per iniziare così questa recensione, stavo per dire che gli attori sono giganteschi, che la cura storico-cronachistica è eccellente, ma manca una lettura, una filigrana che indichi lo sguardo autoriale su fatti già ben noti.
Poi ho avuto un flash: c'è Tommaso Buscetta - dopo l'estradizione e il tentativo di suicidio auto-sventato - che viene finalmente portato in procura per parlare con Giovanni Falcone. Ma la musica non è affatto drammatica, è leggera, comica direi. Allora ho ripensato alle lunghe sequenze dei processi: delle farse, un teatro dialettale, con insulti di ogni tipo, siparietti da ridere, risse verbali. O ancora, il momento della strage di Capaci: immagini degli affiliati che stappano bottiglie di champagne, e lanciano altri insulti in dialetto, tutti baldanzosi. O ancora, Buscetta in carcere che fa uscire tutti per scoparsi la sua puttana del giorno, come ricorda sorridente Contorno prima di dormire, nella cella dove si trova insieme al protagonista.
La lettura di Bellocchio è questa. La storia la conosciamo, c'è poco da aggiungere su Cosa Nostra e sui maxi processi di quegli anni. Ma era (ed è) ancora tutto da decidere il tono con cui raccontare di mafia, così come di camorra (e certi celeberrimi serial rientrano in questo discorso di metodo, ma forse se lo stanno dimenticando). La scelta del grande cineasta è radicale: la sua è una narrazione anti-epica, anti-eroica, anti-romanzesca; è comica, cialtrona, buffonesca. È una decisione radicale e rischiosa, che da sola fa un film memorabile.
Lo stesso Masino è tutto tranne che un grande uomo. Il titolo ne è la prima avvisaglia. È un soldato semplice, che di fronte alla prospettiva di non potersi più scopare sua moglie, capisce che è meglio dire la verità. È uno che non sa reinventarsi una vita, un lavoro; si appoggia allo Stato e alla consorte, canta al karaoke, il suo sogno è morire nel suo letto, anche se dice di non aver paura di niente. Pensa a sistemarsi appena ne ha l'occasione. Eppure, rispetto ai “colleghi” è quasi un grande filosofo. Loro sanno le sue debolezze, lo attaccano sul personale, lui invece ne fa una questione di principi, dice che quelli di Corleone hanno esagerato, facendo fuori donne e bambini senza pietà. Mentre prima c'erano dei “valori” (la digressione sul suo primo obiettivo da eliminare in carriera è un altro siparietto quasi comico che dice molto sui paradossi mafiosi). Ma Falcone lo smaschera subito: smettiamola di dire che la Cosa Nostra “di prima” aveva dei valori. E questa è una staffilata non da poco al cinema sulla mafia (vedi oltre).
La delusione che stavo covando era figlia di un'abitudine (malsana) al cinema sui mafiosi in cui la tensione e l'orrore vengono portati al parossismo, un carnaio in cui immergersi, un mondo imbrattato di sangue. Ma quello è il cinema (e sia benedetto) figlio del Padrino di Coppola e dei tanti suoi emuli. Anche qui c'è l'orrore, ma viene dato in absentia, per contrasti soprattutto emotivi, per deragliamenti dell'umanità di questi assassini, più che attraverso sequenze visivamente orrorose.
Più sensato ragionare su un confronto con Il Divo di Sorrentino, dove l'orrore aleggia nell'aria ma viene ugualmente sottratto. C'è però una differenza ineludibile che scardina questo parallelismo: nelle storie di Buscetta, Riina, Calò e sodali non potremo mai trovare discorsi come quello memorabile di Andreotti (“Perpetuare il male per garantire il bene”). Non li troveremo perché questi qui sono uomini piccoli, ignoranti, semplicemente affamati di denaro o di potere. Quindi non c'è granché da argomentare. È la verità di Buscetta contro quella di Calò, di Riina e così via. Ciascuno gioca a negare le parole altrui, senza elementi aggiuntivi, senza corollari. Dicono: “Io non conosco quest'uomo”. Sono profondamente ignoranti e testardi.
Lo spirito di questo film lo si coglie appieno nel momento in cui a testimoniare è Contorno. Lui racconta tutto in siciliano stretto, gli avvocati non capiscono e protestano. Allora lui si incazza dicendo che non conosce l'italiano. E se non gli va bene così, smette di parlare del tutto. È questa la statura degli uomini di Cosa Nostra (comica, nel senso classico del termine: personaggi infimi meritano uno stile ridicolo, basso).
Riina è un verme, paralizzato dalla sua sete di potere. Le sue macchinazioni costanti lo rendono impacciato; non reagisce, non dà soddisfazione al nemico rispondendogli a tono. Anche qui, l'orrore di quanto compiuto (o meglio, fatto compiere) si staglia implicitamente sulle sue spalle, ma la persona in sé è viscida, anzi, insignificante. Sono dei nessuno questi qui, dei cervelli in cancrena che fanno del loro più grande difetto (l'assenza di compassione) il loro strumento per arrivare al successo, per sopravvivere come tigri nella giungla mafiosa. Ma nella società civile sono delle scimmie subumane.
Ed è questo il lascito davvero rilevante (e difficilissimo da sostenere nell'economia di un film, perché il cinema è fascinazione, attrazione anche verso l'orrore, gusto del male. Siamo nell'era degli eroi malvagi, alla Breaking Bad, alla Gomorra, ed è normalissimo che sia così. Qui abbiamo invece un eroe anti-eroico che combatte dei nemici anti-epici, una guerra tra larve), dicevo che è questo il lascito fondamentale del lavoro di Bellocchio: dare loro il ritratto che si meritano.
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