Riesci quasi a respirarla, la polvere della casa di Lee Israel, scrittrice fallita che si reinventa truffatrice di grana squisita, capace di vendere circa quattrocento lettere di personaggi famosi, create ad arte per sbarcare il lunario. Senti la frustrazione che aleggia a mezz'aria, il ticchettio dell'orologio che pungola l'orgoglio della donna davanti alla pagina bianca. Non fatichi a captare la puzza di merda di gatto e il fastidioso brusio delle mosche che ronzano per le stanze sporche e disordinate.

Marielle Heller ha fatto un film d'altri tempi. Che fa bene ai nostri tempi, perché sa fare le giuste premesse, sa costruire con puntualità tutto uno scenario umano dolente, ma che non si piange mai addosso, e lo porta avanti con precisione, senza cercare neanche per un istante di rendere accattivante e simpatica una donna che accattivante e simpatica non è.

L'immersione nella sua esistenza è profonda, il suo carattere spigoloso ci pare familiare, come quello di una prozia che facciamo in modo di evitare a ogni costo. E ci piace un po' di più perché non ha un cuore dolce nascosto dietro alla corazza, non ha una sorpresa luminosa che la riscatta. No, Lee resta insopportabile fine alla fine, o quasi. E se anche comprende di aver vissuto male, di aver sprecato la sua vita a rincorrere un sogno per il quale non era portata: be' non per questo la regista la salva. Le lascia giusto un respiro finale, una boccata d'ossigeno dopo l'apnea, prima di rivelarci nei titoli di coda com'è finita la sua vicenda, che in un certo senso - molto obliquo - salvifica lo è pure.

Ma è molto meglio concentrasi sui caratteri devianti, e preponderanti, della sua figura. Gli zuccherini sono minimi, consolazioni d'un istante, in mezzo all'amarezza. Il gatto, l'alcol, l'amico insperato Jack Hock. Sono pilloline al miele che non rischiarano una vita grigia, ingrata, testarda fino all'inverosimile. Ed è consolante un film che guarda in faccia il pallore dell'esistenza, le sfumature color merda nei sogni rosei di Lee e di ognuno, che setaccia tutte le scaramucce, gli imbarazzi, le disperazioni d'una vita senza coccolare la sua protagonista e senza rendere simpatica la sua antipatia.

Ci sono dei momenti ilari, ci mancherebbe; la vita di Lee Israel è grigia, avvitata su se stessa, più che tragica. È la condanna tiepida di dover masticare amaro ogni giorno, senza voragini vere (perché facendosi il vuoto intorno, non ha affetti che possano davvero ferirla), ma senza mai potersi davvero librare in uno slancio di felicità.

Il controcanto è dato da Jack Hock, che versa in condizioni economiche anche peggiori di lei, ma non pare darci peso. È lui che dà qualcosa, una vibrazione affettiva, alla vita crepuscolare di Lee. Ma quando lei lo comprende, ormai è tardi.

Elogio di un film che non narra vicende straordinarie, ma scansiona in modo direi imperfettibile un'esistenza mediocre, ma forse memorabile nella sua mediocrità. Una copia... però autentica, peculiare, originale insomma. Riesce a farlo grazie a un copione misuratissimo, che dice sempre il giusto, con reticenze e aggiunte sempre ben posizionate. E anche grazie a due attori che abbracciano con amore i ruoli di essere umani claudicanti.

7+/10

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