Adesso vi racconto una storia.
Una storia che sa di sogni che si realizzano, di sogni irrealizzabili e dunque irrealizzati, di sogni che vanno in pezzi, di sogni che solo quando lo svolgersi delle cose, da ultimo, si disvela, si compongono in una formidabile caleidoscopia del destino. In due parole, una storia che sa di vita, e di tanti piccoli miracoli.
Il primo miracolo prende forma a metà degli anni ’90, in un noto ristorante milanese. C’è una tavolata, uomini e donne sul precipizio della terza età, alla fine di un pranzo di cui si inizia a intravedere la fine. Dimentichi delle diete, hanno già ordinato i dolci e allentato giacche, cravatte, cinture, pancere, busti, guaine contenitive, fasce elastiche. Mesi di sacrifici che si inabissano nel gorgo d’un tiramisù destrutturato. E’ il Redde Rationem di tutti i fine pasto. Quel momento finale di sbraco di tutte le tavolate, in cui scivoli arrendevolmente nella consapevolezza che l’unica cosa tonica che t’è rimasta è l’acqua.
L’impietoso Mercurio di questa presa di coscienza è un giovane cameriere che ora, in questa porzione di tempo e di spazio, recapita impassibile a ciascun commensale la sua dose di trigliceridi, grassi saturi e insaturi, carboidrati semplici e complessi, una falange di opliti di burro e marzapane , che si abbattono sugli astanti, balzando fuori dal cavallo di troia di un improbabile Souvenir di mousse all’anice stellato e crumble di mandorle.
Qualcuno sicuramente ha già chiesto il conto e indossato il paltò, quando una signora, complice la comparsa degli ammazzacaffè, prende coraggio e, nel silenzio dei convenuti e nell’immobilità del cameriere, intona una canzone. Una nenia del rimpianto e del commiato, il dondolio di un’anima tormentata, che suona pressappoco così:
Non mi dare troppo da bere, sai che il vino mi fa parlare, e non voglio dirti nient’altro di me…
Poi mi viene la malinconia, quella di vederti andare via, quella di lasciarti ritornare alla realtà.
So che mi mancherai e ce ne vorrà per dimenticare…
So che ripenserò alle volte che abbiamo fatto l’amore, io e te.
Ora la vacanza è finita, ricomincia il gioco della vita..
Fai finta di niente, se piango aiutami a dirti ch’è tempo, ormai, di dirci addio.
Parole semplici. Quelle di una donna qualsiasi che si sta separando da un qualsiasi marito. Insomma, Il loro amore moriva, come quello di tutti, come una cosa normale e ricorrente, con le parole che ognuno sa a memoria.
Ma questa donna non è una donna qualsiasi: si chiama Marisa Terzi, una parmigiana tosta, e suo marito è Carlo Alberto Rossi, un uomo di una ventina d’anni più grande di lei, oltre che uno dei più grandi autori e discografici italiani degli anni ’50 e ’60. Marisa pubblica il suo primo album nel 1963, In ricordo di una serata indimenticabile, prima di conoscere quello che diventerà suo marito. Negli anni che verranno, come collaboratrice del marito, scrive canzoni per Mina, Fred Bongusto, Gilbert Becaud, Tony Dallara, Nilla Pizzi, Peppino Gagliardi, Rosanna Fratello, Renzo Arbore, Luciano Tajoli, Bruno Martino, Iva Zanicchi. Nomi davanti ai quali, forse, più di uno di noi si lascerà sfuggire una risatina di sufficienza, ma che allora facevano parte del gotha della musica italiana.
Ma il cameriere – che per inciso si chiama Jacopo Leone – tutto questo, allora, non poteva saperlo. Anni dopo, quando rievocherà quell’incontro, dirà: "…al momento di servire la piccola pasticceria lei intonò una canzone senza scomporsi. Non sapevo nemmeno chi fosse, ma di certo era la voce italiana più bella che avessi mai udito. Non credendo alle mie orecchie, pensai per assurdo che, se mai avessi avuto l’occasione, ne avrei fatto un disco”.
Ora. Comprenderete bene che le possibilità che un giorno un cameriere faccia un disco sono oggettivamente contenute, e probabilmente pari a quelle di vedere i Pink Floyd riunirsi in occasione della Sagra della Porchetta di Ariccia.
Ma quel cameriere, che dell’inseguimento ai sogni ha fatto una specialità olimpica, nel frattempo si è laureato in architettura, ha forgiato il disordine e l’altrove nel proprio mestiere, ed è finalmente riuscito a fare quel che ha sempre sognato: applicarsi a qualcosa senza chiedersi che cos’è, sviluppandola a tal punto da rendersene conto soltanto a cose fatte, col senno di poi. E negli anni, solo col senno di poi, capisce di aver dato vita a una casa editrice, uno studio di registrazione, un negozio, un laboratorio artigianale, un museo, una casa di produzione video, un’associazione culturale e una biblioteca abitabile, qualunque cosa voglia dire. E in tutto questo, in ricordo di una serata indimenticabile, non riesce a togliersi dalla testa quella signora, quella voce, quelle parole, che parlavano di malinconia, solitudine, rimpianti, nostalgie.
E allora si fa coraggio e scrive a Marisa.
Lei gli risponde dopo un tempo lunghissimo. Lo richiama al telefono e gli fa: Sono Marisa, la signora che canta le canzoni della malinconia. I due si incontrano a Berceto, sull’appennino emiliano, dove lei è nata e ha deciso di vivere, sola, dopo il divorzio dal marito. E qui, col sottofondo dello sfrigolio di un camino, gli racconta delle tante canzoni che ha scritto per farsi compagnia in tutti quegli anni di solitudine. Canzoni che nessuno ha mai sentito e che tiene, come si usa dire con espressione abusata, in un cassetto. Lui le propone di aprire quel cassetto per farne un disco e lei, vinta la sua timidezza, accetta.
E vent’anni dopo quella serata in quel ristorante, quel cameriere riesce a far accomodare Roger Waters su quelle panche di quella piazzetta dei Castelli romani e a servirgli quel maledetto panino con la porchetta.
E a quasi ottant’anni - come fece il suo conterraneo Verdi col Falstaff - Marisa prende un aereo, vola a Parigi e torna in sala d’incisione per realizzare il suo capolavoro. Canzoni perdute, decidono di chiamarlo. E forse sarebbe stato più azzeccato “ritrovate”, o ancora meglio “resuscitate”. Perché il miracolo che compie quel cameriere dando vita a quelle canzoni scritte decenni prima da una donna che non cantava da cinquant’anni ricorda quello di John Hammond in Jurassic Park, che riesuma il DNA del dinosauro dal sangue delle zanzare vissute nel Giurassico e rimaste imprigionate nell’ambra.
Dodici canzoni in tutto. Dodici dinosauri che riprendono vita. E poi quella voce. Che non tiene una nota che è una.
Attorno a lei, una atmosfera smunta, macilenta, minimalista. La colonna sonora ideale per accompagnare i fantasmi delle solitudini di ciascuno di noi, prese per mano da quattro musicisti giramondo di estrazione jazzistica, capaci di frullare i ricordi di una vecchia signora e i sogni di un giovane cameriere, per tirarne fuori uno dei dischi più veri che vi possa capitare di ascoltare. Date retta a un cretino.
Non lo cercate, questo disco, sui servizi di streaming musicale. Non lo troverete.
E non cercate neanche Marisa, a Berceto. Cercatela, piuttosto, nel sogno più bello di Giuseppe Verdi.
Quella Casa di Riposo per musicisti che volle fosse realizzata a Milano dopo la sua morte e a cui destinò gran parte del patrimonio, insieme ai suoi diritti d’autore, che tutt’ora la mantengono in vita. Lì, nella stessa casa di riposo che il Maestro definì “la sua opera più bella”, troverete anche lui, Verdi, sepolto nella cripta con le parole che il D'Annunzio scrisse per lui, e in cui noi, adesso, socchiudendo gli occhi, possiamo vedere anche un po' di Marisa.
Egli trasse i suoi cori
Dall’imo gorgo dell’ansante folla.
Diede una voce alle speranze e ai lutti.
Pianse ed amò per tutti.
PS. Se volete un assaggio di tutto questo, andate qui. La prima e l'ultima su tutte.
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