Avete per caso un originale di questo disco acid folk “Dreaming With Alice”? Wikipedia lo segnala venduto a 4061 euro. Tre anni fa...
Mark Fry, nativo dell'Essex, studente di arte futurista all'Accademia delle Belle Arti di Firenze intorno al 1970 e, nelle sue primissime esperienze di spaurito folksinger, grande estimatore di Lucio Dalla, proprio nel periodo in cui registrava “Dreaming with Alice” venne da quest'ultimo accolto nel carrozzone di una tournée, divenendone supporter. Fu il suo mirabile apprendistato. Non dimentichiamo cos'era Dalla in quegli anni, la sua provocatoria originalità, il carisma del personaggio, che dopo aver scandalizzato Sanremo si apprestava a collaborare con Roberto Roversi. Fry tuttavia dopo qualche tempo si dileguò. Tornò dalle sue parti, per avviare una carriera di pittore avanguardista, sempre che oggi un termine come questo possa avere ancora senso. Non fu il primo né l'ultimo dei musicisti a fare questa scelta: ricordiamo proprio nel 1972 l'uscita dell'impressionante “Tarot”, apocalittico capolavoro progressive del pittore svizzero Walter Wegmüller.
Veniamo però al lavoro di Fry. La title track è distribuita, con scelta relativamente originale, lungo tutta l'ossatura del disco in dieci frammenti, riemersioni di un discorso che attesta lo status di concept-album del lavoro. Subito arriva uno dei brani più efficaci, “The Witch”: una galoppata lisergica, dove alle cadenze dei bassi e delle percussioni si intrecciano i fraseggi delle corde e in alcuni tratti dei fiati. Di chi si parla, una sirena, una strega? La risposta si perde nel fumo dei ghirigori di Fry, che fra sitar e mandolini accompagna l'ascoltatore, per dirla in termini carrolliani, oltre lo specchio. A proposito: non gli chiedete la sintesi, caratteristica del resto rara negli autori psichedelici. Ma Fry sa anche sfrondare e limitarsi al gioco di riflessi che illumina anche composizioni di respiro ben minore (come in “A Norman Soldier”, una rêverie). Se “Song For Wild” ha un incedere più elegiaco rispetto al primo brano, ricordando un breve idillio alla “Mother Nature's Son”, la splendida “Roses for Columbus” parte bassa, come un'assorta contemplazione, dopodiché si fa incalzante. Vi si alternano il discreto cantato di Fry allo sfarfallio cristallino delle chitarre, che ricorda uno svolazzo fra le alture dell'immaginazione; la lunga coda è fatta di sospiri, a ondate. Altalenante è anche “Lute And Flute”, con i suoi evocativi backing vocals e un mélange ben strutturato. Il flauto punteggia la conclusione corale.
Qualche volta si rimane sorpresi: per esempio, “Down Narrow Streets” è un brano di travolgente freschezza, con una notevole esuberanza strumentale, al pari del dischiudersi di una rosa sonora; lascia però un'impressione d'incompiutezza. Questo, d'altra parte, non stona rispetto al clima complessivo che si respira nell'album. Configurandosi come “concept”, esso si può permettere - e si deve imporre, sotto certi aspetti - anche delle pennellate sparse, ma pur sempre funzionali al quadro globale. Il pezzo che mi ha conquistato, se di pezzi in un disco tanto organico si può parlare, è “Mandolin Man”, una specie di manifesto in cui l'autore si dipinge come un uomo-mandolino che vaga per il mondo. E così vaga questa sua musica, ora esitante, ora impetuosa, ora cadenzata (vedi dal minuto 30:20 del disco), ora soffusa. Fra un'accelerazione e uno stallo momentaneo si aprono squarci che diventano abissi, sciabolate, poi balzi e ricami certosini ma impazienti, poi ancora autentiche esplosioni, in un crescendo che si chiude sul mutamento della ritmica e, infine, in un nuovo, ultimo crescendo che soffoca il finale.
Troviamo anche bizzarrie meno creative: il disco si chiude su di un brano registrato con voce e musica al rovescio, con titolo a sua volta al rovescio, “Rehtorb Ym No Hcram”, interessante gimcana sonora che, se mi passate la sinestesia, sembra fatta di gelatina. L'espediente non è granché originale, soprattutto da “Rain” in poi (questi Beatles tornano sempre a galla...), ma va segnalato il perfetto armonizzarsi della canzone con il resto dell'opera.
Come dicevamo, Fry lasciò l'Italia, si affermò come visual artist e sparì dalla circolazione, un po' come la magnifica Vashti Bunyan fra “Just Another Diamond Day” (1970) e “Lookaftering” (2005), tanto che il suo secondo album, più convenzionale, sarebbe uscito solo nel 2008: “Shooting the Moon”. Da lì non si è più fermato, scrivendo ancora - consiglierei l'ascolto del dolcemente malinconico “South Wind Clear Sky” (2014) - ed esibendosi anche in tour, per esempio in tre concerti a Tokyo nel 2013. Se guardiamo a certo folk di adamantina originalità, il genio di John Fahey o di Bridget St John è altra cosa. Provate però a trascorrere una quarantina di minuti con l'”uomo-mandolino”, le sue allucinate fantasticherie, i suoi accordi aerei, e li troverete non proprio buttati via.
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