Qualcuno ricorda "Laid", la canzone che nel 1994 rese famosi in tutta Europa i James, band inglese che per un certo (breve) periodo incantò Manchester alla pari dei più famosi Oasis? La canzone in questione, dotata di un accattivante ritornello in falsetto e di un testo esagitato al punto giusto, venne ritirata fuori alcuni anni dopo da un cantautore americano che la reincise con tanto di violini per completare la colonna sonora di "American Pie 3 - Il matrimonio". Il cantautore in questione, Matt Nathanson, non era certo una novità per il circuito pop acustico americano (che, a quanto pare, è dotato di vita propria), ma non aveva mai ottenuto la giusta visibilità in Europa, dove invece il suo approccio vagamente folk avrebbe trovato terreno ben più fertile per edificarsi.

Nel 2007, dopo cinque album in studio pubblicati nei soli Stati Uniti, il nostro ha provato il grande salto pubblicando per una major e distribuendo maggiormente il suo lp. Il risultato non è stato del tutto soddisfacente, ma Matt vanta comunque uno zoccolo duro di appassionati in madrepatria e quanto pare alla fin fine si accontenta di questo.

Al suo esordio, "Please", datato 1993, la sua voce era roca e vibrante come quella di un David Gray in erba, e il sound ancora acerbo denotava una palese ispirazione nella musica acustica europea, qualcosa di semisconosciuto in America, che faceva di lui un piccolo predicatore in terra pagana. Nel frattempo però è passata molta acqua sotto i ponti, la voce di Matt è migliorata, ha guadagnato in estensione e in tecnica, e la sua capacità melodica, comunque notevole, è rimasta intatta nonostante lo scorrere del tempo. Oggi Matt Nathanson è un trentacinquenne barbuto e allegro che con "Some Mad Hope" riesce nel non facile compito di suonare creativo e valido anche nell'Europa che del pop acustico è stata da sempre la culla.

La traccia iniziale, "Car crash", denota da subito un approccio ben prodotto e studiato a pezzi mid-tempo dotati di discretà qualità melodica impreziosita dall'ottima voce del cantante originario di Lexington, Massachusetts - ma è con la successiva "Come on get higher", la migliore del lotto, che raggiungiamo la piena consapevolezza di come questo umile interprete pop possa raggiungere risultati eccezionali con pochi accordi ben piazzati: strofa e preritornello poetici e vibranti, in cui all'acustica di Matt fanno da controcanto pacati riff di chitarra e una ritmica tipicamente statunitense, paradossalmente vicina all'r'n'b (stile One Republic, eh già), che però in questo impreziosisce e dà slancio al bellissimo e dolce ritornello davvero riuscito nel gioco di rimbalzi che va dai Travis ai R.E.M.

Se la successiva, pianistica sviolinata "Heartbreak world" è forse un mezzo passo falso viziato dall'umore di Nathanson che non sa decidersi tra tristezza e gioia, al pari di "Gone", in sè troppo volutamente catchy nel ritornello marziale e orecchiabile vicino al conterraneo Howie Days, la quarta traccia, "Wedding dress", segnala fin dal riff iniziale e dalla strofa un ottimo lavoro di songwriting. Nel ritornello, giocato sull'ottimo acuto di Matt che si innalza a toccare mostri sacri del pop come il già citato David Gray o i primi Coldplay aggiungendoci un tocco vagamente più rock e sostenuto grazie alla onnipresente batteria, ci rendiamo conto che, se fosse nato in Inghilterra, Nathanson sarebbe facilmente diventato un'acclamata star internazionale. Altro gran pezzo è la dolce "Bulletproff weeks" in cui Matt recupera le sue radici più pure, vicine al folk di Dylan o dell'odierno Damien Rice costruendo una delicata ballata acustica impoverita al massimo per dare risalto al testo malinconico e al falsetto vellutato e sofferto che raggiunge nella parte finale il suo apice emotivo.

La seconda parte del disco inizia col pezzo forse più inutile del repertorio, la briosa e rockeggiante "To the beat of our noisy hearts", ma si riprende subito con un'altra ballata da innamorati, "Still", con unizio soffuso, quasi a cappella, che man mano si apre in un ritornello semplice semplice che sarebbe potuto essere cantato senza difficoltà dagli Starsailor di James Walsh e si adagia su un bridge copiato da "Torn" di Natalie Imbruglia. Sul versante rock il brano migliore è senz'altro il successivo "Detroit Waves", il cui ritornello in sè non particolarmente originale si nobilita nel suggestivo ponte in cui il nostro ci dà un saggio della sua imprevedibilmente elevata estensione vocale in cui ancora una volta ritroviamo riflesse le splendide corde di Damien Rice (del quale a Nathanson mancano forse gli altrettanto caratteristici sussurri).

Per l'epica "Falling apart" il buon Matt sarebbe forse potuto essere accusato di plagio dai My Chemical Romance (sentire per credere, sono evidenti gli echi di "Cancer" e "Welcome to the black parade"), ma il risultato è comunque un pop rock fresco e divertente. L'intimistica "Sooner surrender", con una strofa vicina alle ballate di Sting e il ritornello giocato tra violini incantati e falsetti soffusi, è forse il pezzo che non ti aspetti, e nonostante qui la batteria stoni come non mai non si può non pensare che Matt abbia ben assimilato la lezione di stile lasciata da Travis e Coldplay. Il disco si conclude con la dolce e poetica "All we are", un piccolo gioiello di immediatezza in cui il nostro ci mostra la sua vena più melodica, accompagnata da un testo stranamente ottimistico e solare, figlio dei tramonti californiani (la California è la seconda casa di Nathanson).

In conclusione dunque un onesto album pop che, se da un lato ci lascia in bocca il sapore di troppi, netti punti in comune con altri cantautori più famosi (tra gli altri, Jack Johnson e Ari Hest), ci mostra anche l'efficacia e la poesia di una voce che non ha nulla da invidiare a quella di artisti ben più affermati, e che anzi è sotto molti aspetti più pura e genuina, nonostante Matt non sia più un ragazzino. Alcuni pezzi più che buoni ("Come on get higher", "Wedding dress" e "All we are" su tutti) esaltano il livello di un disco che non è forse un capolavoro, nè un'opera indimenticabile, ma che senz'altro mostra a noi europei che spesso, anche se non sempre, anche gli americani sanno fare qualcosa di convincente in ambiti che storicamente ci hanno sempre visto superiori, come in questo caso il pop venato di chitarra acustica e di pacata nostalgia d'amore.

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