Matteo Garrone è uno di quei nomi che, attualmente nel nome del vero Cinema Italiano, ha dimostrato di saperci fare. Il suo Cinema prende spunto dai grandi maestri del passato, in particolar modo il Neorealismo, per farseli suoi per certi aspetti: storie in cui al centro vive il disagio dei protagonisti, ambientazioni in cittadine senza tempo e nella Suburbia più profonda, fino all'utilizzo di attori che non siano necessariamente dei VIP intesi come attori Hollywoodiani, a differenza di quanto faccia invece Paolo Sorrentino nella fase post "Le conseguenze dell'amore". Garrone sa come scegliere i volti, il più delle volte sono attori o presi dalla strada, o che semplicemente riescono a impersonare in maniera talmente genuina i loro personaggi...fino a diventare loro stessi personaggi. Per fare un esempio, i due ragazzi di "Gomorra" non sono attori professionisti (sebbene "Pisellino" diventerà attore feticcio di Garrone), eppure risultano perfetti nelle loro interpretazioni, in cui la loro spontaneità e autenticità diventa il loro maggior punto di forza. Avverto che questa recensione conterrà spoiler, quindi per chi non abbia ancora avuto occasione di vedere questo film si assumi la responsabilità della propria scelta.

In questo "Dogman" il protagonista è Marcello, ed è curiosa l'idea in primis di chiamarlo come l'attore stesso Marcello Fonte, e come è stato costruito nella sua apparente ingenuità. Marcello è un veterinario, abita in questa periferia di Roma a pochi minuti dal mare. E' divorziato, ha una figlia che per lui è la cosa più preziosa che ama oltre ai cani che gestisce. Marcello viene tormentato da Simoncino, un pugile e delinquente locale che lo coinvolge nei suoi crimini, ma quando decide di fare una rapina al negozio a fianco al suo, sarà lo stesso Marcello a pagare, scegliendo di scontare la pena per paura (o amicizia) nei confronti di Simoncino. Tornato un anno dopo dalla prigione, con la delusione da parte dei suoi vecchi amici e abitanti che lo vorrebbero esiliare dalla loro cittadina, deciderà di vendicarsi verso Simoncino.

Il film è una potente cornice che mostra uno spaccato cupo di vita tristemente attuale, in cui la regia di Garrone si manifesta in tutto il suo splendore: campi lunghissimi degni di Sergio Leone, che regalano al film un'atmosfera quasi western nel suo partire come dramma neorealista, seguiti da piani sequenza (la scena della prigione), riprese subacque, macchina a mano nelle sequenze di violenza e lunghi fermi immagini sui personaggi. Il tutto sostenuto da una splendida fotografia fredda, dominata dal blu e dal grigio. Non c'è un'inquadratura buttata o che non acquisisca potenza sull'aspetto decoroso. Garrone è un mostro, in questo film si sente libero, e quando una regia respira libera lo si sente. Tralasciando lo stupefacente piano tecnico, passiamo ai personaggi del film, e di conseguenza ai rispettivi attori: Marcello Fonte nel suo ruolo è perfetto, sia nel rendere per certi versi infantile e adorabile il personaggio minuto di Marcello, che nelle sequenze in cui torna dalla prigione acquisendo maggior determinazione e amarezza allo stesso tempo. Ho personalmente adorato la sequenza del ritorno dalla prigione nel suo vecchio negozio: una scena senza parole, solo il vento che sbatte dentro questa stanza buia, e lo sguardo di Marcello perso nella desolazione, così come nella splendida inquadratura finale. Nei confronti dei cani Marcello vede delle figure per certi versi migliori degli esseri umani stessi. Questo affetto viene ricambiato dai cani stessi, che vedono in lui uno che non solo li ama, ma li capisce. Un'interpretazione sofferente in tutti i sensi, visto che Marcello Fonte dovette rischiare sul proprio fisico, come nella sequenza in cui porta il corpo di Simoncino ai loro amici per farsi accettare di nuovo da loro, spinto da questo desiderio di mostrarsi vittorioso seppure non fosse ancora consapevole di aver commesso un omicidio. La sequenza assume una metafora quasi biblica, di Gesù mentre si trascina la croce sul Calvario.

E qui passiamo al non protagonista: Simoncino, interpretato da un Edoardo Pesce impressionante nella sua trasformazione: una macchina di violenza spietata, spregevole, senza rimorsi, un personaggio che in quella dimensione di cittadina romana risulta potente e indistruttibile come una sorta di Bau Bau delle storie di paese. Il rapporto tra Simoncino e Marcello è il perno vero del film: due mondi distanti, ma nel loro essere sconnessi quando entrano in relazione trovano un equilibrio molto più costruttivo rispetto a quello degli altri cittadini (la sequenza a tavola in cui discutono su come uccidere a sangue freddo Simoncino ne è un esempio). Nel suo essere pericoloso e ingestibile, Simoncino vede in Marcello una figura che non lo giudica per le azioni che fa e in fondo gli vuole bene, seppure dalla sua non si impegni nemmeno un po' nel rispettare la vita privata del suo minuto amico (come nella sequenza iniziale, in cui tira su di coca nella casa di Marcello con la figlia presente). Emblematica la sequenza in cui viene deriso da Marcello rinchiuso in una gabbia per cani, in cui Garrone mette in scena una forte critica di quanto gli esseri umani siano bestie nella loro spietatezza, un'osservazione che lo stesso Inarritu affrontò nel suo splendido "Amores Perros".

"Dogman" è questo. Un pugno nello stomaco emozionante, crudele, nudo e crudo, ispirato ad un fatto di cronaca reale del Canaro seppur liberamente reinterpretata. Consiglio per chi cerca una versione più fedele ai fatti il film "Rabbia furiosa: Er Canaro", in una chiave molto più gore e violenta, diretto non da meno che Sergio Stivaletti, effettista e truccatore di pellicole che lavorò con registi del calibro di Dario Argento, Lamberto Bava e Michele Soavi.

"Dogman" riconferma ancora una volta il nome di Matteo Garrone per il Cinema italiano, come una goccia di pioggia in un deserto dove non piove mai.

Carico i commenti...  con calma