La materia di cui è fatto il cinema. Si trasforma quando metti un classico come Pinocchio in mano a un maestro come Garrone.
Sì trasforma la visione, si fa più realistica e più mostruosa, più fiabesca e più tangibile. Si trasformano gli occhi, gli sguardi, persino i bottoni delle camicie sembrano più veri e significativi.
Garrone non cambia nulla del classico, perché in quanto tale non ha bisogno di essere aggiornato, è sempre attuale. Eppure cambia tutto, lo fa suo e lo legge coi suoi occhi, che poi diventano i nostri in sala.
E allora la favola di un bambino che non vuole crescere diventa una favola sulla miseria, sulla fatica di portare avanti una vita retta. Un sorriso amaro sull'esistenza, cosparsa com'è di trappole. Tutta materia presente nel libro in sé, ma forse velata dalla voglia di maestri e narratori di accentuare la lezioncina, di enfatizzare solo un lato dei caratteri e dei fatti.
Una favola che dà respiro a un mondo fatto di egoismi, quello di un bottegaio che vende abbecedari, di un burattinaio che brucia pupazzi per cuocere il suo maialino allo spiedo. Una favola sulla pedanteria autocompiaciuta dei maestri che quasi godono degli errori immancabili degli alunni. Una favola che sanziona le ingenuità di Pinocchio ma le inserisce in un contesto pieno di adulti meschini, conniventi, irresponsabili, deboli.
Lucignolo è un monellaccio, ma ha occhi purissimi. Più grave la colpa di chi lo porta nel paese dei balocchi, per farne poi mercimonio in forma di ciuchino. E non a caso si chiama "omino di burro". E la pochezza del padrone del circo, che vede chiunque come mero oggetto da spettacolarizzare?
Geppetto non fa eccezione. La sua miseria è piana conseguenza d'una ambizione nulla, che preferisce vivere nella pancia del pesce cane piuttosto che rischiare nel tentativo di evadere. Pinocchio sbaglia quasi tutto, ma impara velocemente dai suoi errori. Invece gli adulti intorno a lui ci si crogiolano, nell'errore, ne plasmano la loro esistenza piuttosto che tentare di cambiare.
Il film è una leccornia per gli occhi. Garrone ha cercato (e trovato a fatica) paesaggi e borghi incontaminati, per dare il suo afflato realista alla vicenda ormai plastificata dalle infinite riproposizioni. Nei primi cinque minuti la rifà nuova, la fa sua. E allora guardi rapito ogni dettaglio, le canotte sgualcite, le case sgarrupate, le facce legnose e sudice. Le guardi e ti chiedi dove stia il mistero magico del cinema. Perché tanto di attragga quella miseria esibita.
Poi si alza la posta e irrompe il fantastico. Una galleria da togliere il fiato, dai meravigliosi gatto e volpe di Ceccherini e Papaleo, alla fata, al grillo parlante, fino al tonno quasi horror che commuove nel finale. Le voci sono meravigliose quanto le visioni. È un fantastico tangibile e concreto, pesantemente fisico e presente, perché semplice immagine del reale. Fanciullesco simbolo.
La scansione sembra classica, quasi didascalica. Ma negli interstizi tra una battuta e l'altra, che perseguono con rigore il dettato originale, c'è spazio per tanta saggezza cinematografica, per tanto non detto che però risulta quasi gridato.
Mai mi sono sentito così coccolato dall'amore materno della Fata Turchina. Mai ho avuto questo rispetto e questa compassione per gli sforzi un po' vani e patetici di un padre sprovveduto come Geppetto. Ma non è un caso. È il linguaggio invisibile del cinema che abbraccia lo spettatore, lo conduce, lo stringe a sé. Le parole semplici, la cadenza dialettale di Benigni, le occhiatacce di Ceccherini. I suoi capelli unti e le mani nere.
Tutto risuona di verità, un cinema che ti avvolge e fa suo, sussurrandoti all'orecchio una lingua che quasi solo Garrone conosce in Italia. Una lingua che una casa decrepita è un luogo dell'anima, che un prato fiorito è una musica, che un occhio languido è un monologo.
Non credete a chi dice che è una mera riproposizione, sono loro che non sentono quella vocina.
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