Disco inciso in quintetto, con Don Alias alle percussioni, James Genus al basso, Jeff ”Tain” Watts alla batteria e Joey Calderazzo al piano. Due anni dopo “Tales from the Hudson” (del 1996) esce questo monolite al jazz contemporaneo di altissimo pregio.
Forse si intuisce un leggerissimo bias dell’umile narratore nei confronti di un artista che continua rigorosamente a sfornare prodotti e collaborazioni di ragguardevole livello, dopo un doveroso trascorso fusionaro nei primi anni ottanta; task comunque di difficilissima coniugazione, quando bisogna anche riempire lo stomaco nella durissima America. Ed a maggior ragione giù il cappello quando, come nel caso di Michael, si è gravemente malati (in questi ultimi due anni: auguri, vecchio leone) e malgrado tutto si esce fuori con un’opera complessa e ricca come “Wide Angles”, incisa in “quindicetto” !
Gente dai pur nobili intenti (Tom Scott, David Sanborn, Rick Braun, Chuck Loeb) è da tempo sonoramente crollata sotto le blandizie dei discografici per diventare la fotocopia scolorita non di se stessi (che sarebbe ancora entro i limiti legali) ma di tipi alla Kenny G, cioè il peggio che esista sulla faccia della terra in tema di Mistificatori Musicali (potrebbe essere il nome di un gruppo, mmmh…). Dunque, il disco non concede sconti ai facili costumi delle vostre orecchie: se non vi piace il jazz radicale e ben costruito, ma che lascia ampio spazio all’interpretazione dei singoli musicisti coinvolti, malgrado i brani siano di precisa struttura e costruzione rigorosa, state alla larga. Meglio per voi e per i vostri padiglioni auricolari. Magari cominciate da una big band, da un vecchio Illinois Jacquet che vi espone il temino senza colpi al cuore e poi progredite pian piano, ok? Se invece siete uomini già navigatelli, con le palle sopra i boxer, come Cesare Romiti, prendete il disco, tutti fuori dei coglioni a casa; oppure chiudetevi in macchina con la sicura o mettetevi un cuffietttone in capo e comiciate l’ascolto. Un’ultima nota: il disco è dedicato a Don Grolnick, all’epoca scomparso da poco che era solito dire che gli piaceva vivere “close to the edge, as long as it is two or three blocks away ” donde il titolo.
1) “Madame Toulouse” (Brecker) inizia con una simil tarantella giocata tra contrabbasso, percussioni e tamburello che presto si trasforma in un pezzo swingante a medio-tempo; coinvolgente palestra ginnica; non casuale per Michael e Joey
2) “Two blocks from the edge” (Brecker) parte in sordina con frasi innestate su un pedale di basso che man mano rallenta, riparte sino a sviluppare in maniera imprevedibile ed assolutamente coinvolgente, con largo uso di basso puntato per creare tensione e rilascio orgasmico. Calderazzo incontenibile e precisissimo. Dopo questa musica ci sono i Pearly Gates. Niente meno di ciò.
3) “Bye George” (Calderazzo) ci riconduce a terra con un pezzo che stacca completamente dall’ atmosfera sperimentale dei primi due brani, per scodellare dai vostri diffusori uno swing degno del migliore Frank Sinatra (artista per cui a volte Michael ha fatto il terzo o quarto sax di fila in orchestra, con grande modestia e voglia di apprendere). Orgasmo per le orecchie. Watts probabilmente mangia tavolette di energia pura e Genus lo prende per le palle e lo tiene più volte nel disco.
4) “El Nino” (Calderazzo) altro brano di Joey che evidenzia doti non comuni di fantasia cromatica e ritmica. Bisogna sentirlo, questo pezzo, per credere a quanto si possa fare ancora di nuovo partendo dal Mc Coy Tyner degli anni settanta; chi amava (ama!) Mc Coy Tyner di “ Sahara” e di quel periodo non potrà non avere un Deja Vu ascoltando questo brano.
5) “Cat’s cradle” (Calderazzo) questa “culla di gatto” è una ninna nanna delicatamente interpretata che serve per far capire che anche i “jazz cats” hanno un cuore da qualche parte; scale e cambi di accordo velocissimi incastrati nell’ incedere tranquillo del pezzo che a tratti ricorda il VSOP (does anyone remember?)
6) “The impaler” (Watts) è un brano di energia pura che si sviluppa con il sax in bella evidenza sino ad un certo punto; poi si blocca, “puntato” su un specie di calypso giusto per far esplodere un Calderazzo che ricorda un vulcano in eruzione magmatica allo stadio iniziale. Da non poter rendere a parole. Incredibile.
7) “How long‘ til the sun” (Brecker) parte lento con un sax drammatico e pieno di dignità. Per continuare su un ritmo medio lento che ti serve per riprendere fiato dopo l’eruzione precedente. Ancora numeri di classe stratosferica.
8) “Delta city blues” (Brecker) è, infine, un devertissment in iniziale chiave blues, elaborato in maniera molto libera dal gruppo. Un bel giochino che conferma che i jazzisti sanno spaziare a 360 gradi. Si finisce comunque a swing, mostruoso e libero, trascinato da Watts che è incontenibile. E gli altri dietro senza farsi pregare. La struttura di dodici battute si intuisce appena dietro cascatelle di note e grappoli di accordi sparsi. Dilatata e destrutturata a piacere; dinoccolata e riadattata. Wow!!!
Auguri di nuovo di cuore per la tua salute, Mike: cento di questi dischi!
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