Un padre di famiglia viene promosso giudice istruttore a Teheran, Iran. La moglie è felice, ma sa che ciò comporterà alcuni sacrifici, fra cui uno stile di vita più morigerato e un'attenzione maggiore ai rapporti con persone non allineate al regime. In qualità di giudice, egli, non ha nessun ruolo, sostanzialmente deve firmare ciò che i piani superiori gli dicono, e sentenziare ciò che il regime gli impone. In famiglia, le due figlie vedono, tramite Internet, le rivolte dei giovani (e delle giovani) iraniani stanchi di un secolare potere teocratico. Al padre, in qualità di giudice istruttore, viene consegnata una pistola, non si sa mai. Ad un certo punto, questa sparisce.

Il regista, Mohammad Rasoulof, già autore di opere interessanti come "Il male non esiste" (2020), più volte condannato dai tribunali iraniani (che non hanno mai distribuito in patria un suo film) e che ne hanno sempre limitato l'attività lavorativa, ha girato un film molto bello (anche se non bellissimo, ma le pressioni politiche e alcuni escamotage realizzativi ne hanno sicuramente tarpato le potenzialità) in uno stato di semi clandestinità. Senza la genialità del Jafar Panahi (lui sì recluso) di "Taxi Teheran" (2015) o l'occhio acuto e asciutto dell'Asghar Farhadi di "Una separazione" (2011), il regista sa raccontare un pezzo di Iran che diventa, per dirla alla Visconti, "gruppo di famiglia in un interno".

Non potendo girare all'aperto (le poche scene in esterni non sono girate in Iran) fa del proprio meglio utilizzando gli interni e una claustrofobica messa in scena che, a tratti, si fa inquietante. A spuntarla è la famiglia protagonista dell'opera (di cui si conoscono solo i nomi, ma non il cognome) che viene sezionata in ogni aspetto. Dal padre, giudice istruttore che sembra, almeno inizialmente, avere dei dubbi sul modo di agire del tribunale in cui lavora e che scivola pian piano nella paranoia più estrema fino al finale in cui tenta di "addomesticare" la famiglia rinchiudendola in una specie di grande casa bunker; alla moglie, divisa a metà tra il fanatismo religioso e la voglia di assecondare l'animo ribellistico delle figlie. Se nel primo tempo prevale la descrizione delle rivolte iraniane (tutte riprese dal web e fatte vedere al pubblico tramite cellulare), nella seconda parte il film letteralmente vola, con alcune sequenze di forte impatto emotivo, una su tutte l'interrogatorio sadico in cui un sedicente esperto di psicologia tenta di capire chi, in famiglia, abbia rubato la pistola al padre (che, avendola persa, rischia da 6 mesi a 3 anni di galera).

Agevolato da un ritmo poco iraniano e molto occidentale (le quasi tre ore di durata non si sentono) il regista sa trasportarci in un mondo oscuro dominato dalla censura e dalla violenza, in cui il web sembra l'unica via di fuga (e infatti il padre, prima di segregare la famiglia sequestra i cellulari) e dove nessuno sembra sfuggire alla legge divina, quella cioè che sottomette e rende schiavi gli uomini in un cieco gioco di specchi in cui ognuno è vittima e carnefice (difficile chiedersi chi siano i buoni e i cattivi, in fondo anche le figlie, pur nella loro voglia di ribellione, compiono gesti inopinati) e il tunnel paranoico in cui sprofonda il padre sembra il tunnel in cui appare sempre più sprofondato l'Iran. E Rasoulof, in sfregio alle antiche leggi iraniane che vedono nell'Occidente tutto il male possibile, utilizza un modus operandi molto occidentale: il primo tempo è quasi un kammerspiel; la sequenza dell'inseguimento tra due auto sembra uscita da un film americano degli anni '70 e il finale, teso e glaciale, è, a tutti gli effetti, un western.

Presentato a Cannes, il regista rischiò grosso. Le autorità iraniane, appena saputo che il film era stato completato e disponibile alla visione, condannarono Rasoulof a otto anni di carcere, fustigazione, pagamento di una multa, confisca dei beni e revoca del passaporto. Riuscì a fuggire in tempo, clandestinamente, dall'Iran, si salvò dalla condanna (a patto, ovviamente, di non mettere più piede nel proprio paese) e vinse il Premio Speciale della giuria al Festival di Cannes.

Un film che vuole dare voce a chi non ne ha, e se nel primo tempo appare fin troppo indeciso su quale strada prendere, nel secondo tempo centra il cuore del bersaglio e non sbaglia più una virgola.

Il titolo si riferisce agli alberi di fichi sacri i cui semi cadono sui rami di altri alberi attraverso gli escrementi dei volatili. I semi germogliano e le radici vanno verso il terreno. A radici ben piantate nel terreno, il fico sacro si regge sulle proprie gambe e i suoi rami strangolano l'albero ospite. Come il padre nel film, che rischia di "stritolare" la propria famiglia senza (quasi) accorgersene.

Carico i commenti...  con calma