Conviene iniziare da Charlie Parker.
12 marzo 1955: il mago del sax bebop, il giovane dagli dèi amato, l’uccello di Kansas city, salutava il mondo prima del dovuto. Bird’s Lament è l’elogio funebre che Moondog —al secolo Louis Thomas Hardin— compose alla sua memoria: un notturno fraseggio di eterna beltà. Nei suoi due minuti scarsi ha in sé tutto Moondog: il candore della semplicità e l’atmosfera sospesa che lui soltanto sapeva creare. Le voci degli ottoni disegnano file di lampioni e l’odore di New York ti rimane addosso. Dove potevano vivere infatti Charlie “Bird” Parker e Moondog, entrambi nati nello stato rurale del Kansas, se non nella New York, magica stella polare della nuova musica?
Siamo ancora a New York, un giorno qualunque tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta. Sempre lo stesso candore. Tra la cinquantatreesima e la sesta con la sua musica primitiva e barocca Moondog è intento a ridisegnare sempre di nuovo la mappa sonora del suo mondo. La strada, un piccolo universo di andirivieni, ognuno con un suo tono, ognuno immaginato, ognuno trascritto in frammenti percussivi.
Ecco chi era Louis T. Hardin: un cane che anela alla luna e che corre con ritmo dispari. Apre uno spazio la sua musica, che lascia sempre aperto in un inconcludente dinamismo: “I’m not gonna die in 4/4 time!” esclamò una volta.
La percussione e il contrappunto, coordinate paradossali del suo primitivismo barocco, respirano insieme come in un organismo vivente.
Ecco chi era Moondog: colui che seppe innestare, come nessun altro, il movimento arioso ed imprevisto del jazz nell’austera struttura della musica barocca, dando nuova vita all’antico o creando nuovi strumenti quando i vecchi non potevano bastare al suo modo d’intendere la musica.
…
Forse nevicava quel giorno del 1974, quando Moondog arrivò nella vagheggiata terra d’Europa. Certo è che la cecità non poté affatto offuscare la visione d’un mondo sognato: il sapore e la malinconia della neve si mostravano ora per quel che erano. Sempre quel candore, che gli occhi opachi di Moondog, respirando l’aria di una desiderata Germania, poterono infine vedere.
O forse era d’estate. Come il 4 luglio 1932, quando la candida vernice appena stesa sullo steccato a poco a poco s’asciugava, in un luogo imprecisato d’America, alla brezza estiva. Chissà. Candidamente quel giorno, un ragazzo raccoglieva da terra il proprio destino, senza sapere che si trattava di un denotatore. Aveva sedici anni Louis Hardin, quando i suoi occhi persero per sempre la loro utilità. Ma questo importa poco. Bastano le mani per costruire strumenti nuovi e l’udito per saggiarne il suono. Tutto il resto non serve.
A levigare lo spazio percuotendo membrane tese Moondog pare averlo appreso —in un tempo sfumato, fattosi per sempre oblio— dai nativi d’America. Invece, a costruire contrappunti barocchi non si sa. Fatto sta che Il tempo passò, sempre nella stessa direzione. Venne poi il giorno in cui New York, la sua città, con un lieve cenno del capo lo salutò, dopo tanto tempo. Così lui le rispose:
New Amsterdam was her name
Before she was New York
New Amsterdam is a dame
The heart and soul of big apple city
No matter what name she goes under
I dig her deeply
And no wonder
For she's been lovely to me
And I'm the better
For having met her
Era il 1989, a Brooklyn. Ma non ricordo più quando di preciso. Il tempo si sfalda tra le mani.
Ormai Moondog non percuote più tamburi con uno sdrucito mantello sulle spalle. Ormai il marciapiede della Sixth Evenue ricorda a stento il suo vichingo Louis T. Hardin. Un nuovo millennio è venuto, senza più alcun Moondog.
Ma la sua musica diffonderà per sempre quel candore.
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