Parliamo di uno che si chiamava Bryn Jones, come i nomi storpiati delle grandi griffe che si trovano nei mercatini. Bryn Jones.
Sembra quasi uno scherzo, il nickname di un generatore di crack, i finti Bud Spencer e Terence Hill, il refuso di un blogger ventenne di musica alle prese con una evitabile biografia sui Rolling Stones.
Bryn Jones invece è esistito. Il suo passaggio terreno, durato 37 anni, non ha lasciato l'impronta del mito come accaduto al suo quasi omonimo, ma può vantare una produzione immensa, nel senso numerico del termine.
A proposito di altri dischi, non basterebbero sei cartelle per scrivere la sua discografia. Ogni maledizione che accadeva nella polveriera del medioriente, diventava il nome di un suo disco. Disco.
Nastri, dat, sporcature, cd, sovraincisioni, vecchi arnesi, overdubbing, ossessione, canti in quarti di tono e notizie di un tg in arabo, nella Manchester di locali alienanti incastonati nella insipida città britannica, dove ci si poteva ridurre male tra i tempi dispari e apatici di Muslimgauze.
The return of Black September, Abu Nibal, Azzazin (uno degli artwork più fighi di sempre), Fatah Guerrilla, Mullah Said, Vote Hezbollah. E via così, fino e oltre la fine.
Ali Zarin, infatti, è un lavoro postumo, inciso in vinile e che ho voluto comprare.
Un premio, mettiamola così, per una delle carriere più psicopatiche della storia della musica tutta.
OLP, Palestina, antiamericanismo, nella ricca e grigia Manchester conservatrice della Thatcher e di Major, all'ombra della Union Jack, patria della dichiarazione Balfour.
Ma Ali Zarin, almeno nel nome, sembra non aver nessun riferimento con fatti legati alla difficile realtà mediorientale. Potrebbe essere un drammatico tributo. Un riferimento alla alizarina: un composto organico tossico il cui colore ricorda quello del plasma. Muslimgauze, infatti, morì a causa di una rara malattia al sangue.
Il contenuto del disco, di non facile collocazione in un asse temporale, è stato ritrovato negli archivi e inciso con maniere troppo curate che non hanno fatto in tempo ad essere “trascurate” dal diretto interessato.
La “suite” Ali Zarin, divisa in tre parti, è un tormento ipnotico di 45 minuti: una loop machine che accelera, decellera, muta nei suoi vincoli minimi, rilascia canti e parole di un mondo martoriato. Parole che sembrano emergere, come fantasmi-zombie, da quel disturbo sonoro psicolabile, pronte per essere risucchiate e sparire nel non spazio sonoro.
Non uno dei lavori più insopportabili di Muslimgauze ma, sicuramente, meno connotativo rispetto ad altri suoi progetti curati in vita. A chiudere, una serie di evitabili demo tapes senza nome. Come evitabile, per certi aspetti, potrebbe essere la sua carriera musicale tutta. Come inevitabile, nel magico gioco della schizofrenia, è il risultato di un artista che forse aveva imparato tanto ma che da vero e proprio sragionato, non ha lasciato traccia alcuna, se non nelle menti di chi ricerca nell'arte, al di là del soggettivo e oggettivo, qualcosa che possa ricordare una sorta di empatia estetica.
Bryn Jones ha imparato dall'industrial e fin qui sarebbe facile. Ma ha imparato anche dal primo Steve Reich, quello che nel suo “Come out” giocava a creare ossesioni di phasing, inserendo l'impegno sociale. Un impegno sociale che lo ha accompagnato nel corso della sua carriera, con gli omaggi ai treni dei deportati (Different Trains) o il più recente WTC 9/11.
Uno sguardo da prospettive sempre diverse, la sua cifra, adorabilmente ruffiana, tanto da valergli Pulitzer, ossequi e girocolli: l'unico tra i “minimalisti” ad aver ricevuto applausi e lodi dalla cricca del rugoso vogliamoci bene accademico.
Muslimgauze ha sicuramente imparato anche da Canaxis di Holger Czukay, da My life in the bush of ghosts di Byrne e Eno. Ha imparato e dimenticato, tutto e in fretta. Perché la sua urgenza era quella di far girare più copertine possibili con frasi e immagini di propaganda. Solo che non si è mai capito a chi e perché.
Poteva elaborare qualcosa di più masticabile, ragionarci su un attimo e concorrere al Mercury Prize come un Burial qualsiasi. Niente da fare. Ogni sessione diventava un lavoro da condividere, sperando – ma veramente? - di far arrivare il suo messaggio.
Non ho mai avuto il piacere di incontrare Steve Reich, ma se mai capitasse gli chiederei: “Ma tu davvero, quando hai inciso Come out, pensavi di aver contribuito a un processo di sensibilizzazione verso le numerose ingiustizie razziste perpetuate ai danni della comunità afroamericana? La tua avanguardia di nicchia, avevo lo stesso impatto di Petey Greene o, che ne so, di Hurricane di Bob Dylan?
Probabilmente avrei proposto la stessa domanda a Muslimgauze-Bryn Jones.
Penso che l'urgenza di far conoscere i problemi del mondo musulmano, fosse secondaria rispetto alla narrativa delle sue macroscopiche ossessioni.
Ricucendo questo inquietante puzzle, fatto di cento e oltre produzioni, trovi il fil rouge nella parola sconclusionata di un pazzo seduto in un angolo che ti racconta una verità, nei modi, nei tempi, nei luoghi sbagliati, parlando di sé in terza persona (purtroppo lo faceva sul serio).
E questo è l'aspetto che affascina di più. Così come affascina, inevitabilmente, la storia di un personaggio inquietante. A memoria credo ne abbia parlato Aphex Twin e non sono sicuro che possa essere un motivo di vanto.
E che nessuno dica mai, al signor Bryn Jones, ovunque egli sia, che solo un paio d'anni e avrebbe visto due aerei dirottati fiondarsi sui grattacieli del WTC, con tutto quello che è accaduto dopo. Roba da un disco al giorno.
Aphex Twin dice che l'attentato dell'11 settembre è stata opera degli illuminati ma lui non è il pazzo seduto sul marciapiede.
Nell'arte contemporanea, le ossessioni vanno frenate dalla furbizia, così come ha fatto Reich, sfruttando il politically correct per rendere la sua avanguardia meno attaccabile o Aphex Twin, che le storielle degli illuminati, le limita per qualche intervista yeah yeah.
Per Muslimgauze, arrivederci al prossimo giro di giostra, Ali Zarin permettendo.
Con empatia,
9C.
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