E se l'Inferno non fosse quel maestoso universo grandguignolesco descrittoci da Dante, quell'orgia maestosa e variopinta di gironi affollati ed allegorie, dannati e demoni torturatori, odori, rumori e riflessioni, storie d'amore e di tradimenti, pene e contrappassi inflitti con invidiabile fantasia letteraria?
E se invece l'Inferno non fosse altro che un rancido ed umido sotterraneo, anguste e fetenti e buie segrete, luoghi di torture e sofferenze tremendamente calcolate?
L'Inferno ce lo spiegano senza tanta poesia gli MZ.412.
Ce lo spiegano con il loro ultimo lavoro "Infernal Affairs", licenziato nel 2006, epilogo di un delirio durato quasi venti anni (il loro debutto, "Malfeitor", risale al 1989).
"Infernal Affairs" è l'agognato ritorno che rompe un silenzio discografico che perdurava dal 2000, anno in cui uscì il controverso "Domine Rex Inferum", da molti visto come un mezzo passo falso, poi sepolto dalle gesta soliste del capoccia Henrik Nordvargr Bjorkk e dai suo progetti collaterali, Folkstorm in testa.
L'importanza dell'entità MZ.412 è fuori discussione, tanto che negli anni novanta i Nostri hanno dato vita ad un nuovo filone all'interno del panorama industriale, il cosiddetto "black industrial". Quanto a me, questa, io la definirei semplicemente musica dell'angoscia e dell'agonia: per un terzo dark-ambient, per un terzo power electronics, per un terzo musica rituale, gli MZ.412 sanno inquietare con intelligenza e padronanza dei mezzi.
Da bravi svedesozzi, Nordvargr, Drakhon e Ulvtharm conservano nel delirio l'utilizzo della materia grigia, e per questo gli perdoniamo una certa dose di satanismo a buon mercato, che tuttavia toglie loro quella capacità di penetrazione che è invece propria degli iniziatori del genere, Current 93 in primis: quello che è importante capire è che il loro estremismo non appare mai come una provocazione fine a se stessa, ma l'apice di un'estetica del brutto che deve essere apprezzata nel suo linguaggio e nelle sue fondamenta concettual-musicali, al di là della sua scorsa di greve brutalità.
"Infernal Affairs" si dipana all'interno di un labirinto di corridoi sinistri e terribili stanze, dove, come improvvisati Danti Alighieri, siamo condotti a fare da testimoni innanzi a scene indicibili ed afflizioni senza tempo: ora origliando alla porta rugginosa di una cella, ora catapultati nel mezzo dell'agonia, direttamente davanti al ruvido tavolaccio su cui si compiono le torture, impotenti osservatori di pene inflitte con spietata meccanicità.
Non vi sono ragnatele in questi cunicoli marcescenti, perché essi brulicano di un'incessante attività, sia essa l'azione meticolosa del carnefice, sia essa lo sgocciolare dell'acqua putrida che infesta questi luoghi di abbandono e perdizione.
Durante le prime tre tracce, in verità, non ci esaltiamo, e l'impressione è quella di trovarsi innanzi alla solita roba che negli ultimi anni ci propina, più o meno onestamente, la Cold Meat Industry.
La breve "Preludiumh" ha il compito di indicarci il cammino: un mesto trombone che fluttua desolante nel silenzio materializza innanzi a noi la porta metafisica che dà accesso alla dimensione terribile in cui stiamo per sprofondare. "Infernal Affairs I" riprende il tema e si fregia di percussioni marziali che vorrebbero essere maestose, ma che in realtà descrivono un buio e squallido corridoio che (questo non lo sappiamo ancora) conduce a luoghi ben peggiori. La traccia seguente introduce suoni abrasivi, preannunciando il peggio, ma il peggio è che siamo ancora in sala d'aspetto, in attesa del nostro turno.
Cella n. 4, "Point of Presence": inizia il supplizio. Il pavimento trema, urla lancinanti ci scuotono nel profondo del nostro essere: a qualcuno stanno probabilmente tagliando le palle con una motosega. Il brano è in grado di definire il reale potenziale degli MZ.412, un maledetto pugno nello stomaco: ecco cosa vuol dire suonare power electronics! Esplosioni improvvise, suoni che si sovrappongono in crescendo di agonia inverosimili, pause repentine, e poi nuovamente agonia, un trapano nel buco del culo: là dentro stanno per davvero facendo male a qualcuno!
La porta si chiude, ci dicono che dobbiamo proseguire, e noi, ancora ansanti, ne siamo lieti; ma noi, poveri noi!, non sappiamo quello che ci attende.
Cella n.5, "Lord, Make Me an Instrument of your Wrath", il dark-ambient come Dio (...) comanda: echi di Raison D'être e Blood Axis si intersecano in orchestrazioni minacciose, tamburi che battono a morto, un'elettronica deviata che cresce nell'oscurità. Si parlava di agonia, ma anche di angoscia, perché c'è chi viene torturato, e c'è chi viene lasciato sadicamente a riposare, per poter meglio soffrire del supplizio successivo: è qui che apprendiamo l'immensità del dolore, subito e temuto, ben più profondo della misera cella di 3 m x 4 in cui ci troviamo.
I riverberi dell'elettronica echeggiano ancora nelle nostre orecchie, quando troviamo sollievo in "Epilogh", qualche secondo di pseudo-silenzio.
Melliflue tastiere ambientali ci avvolgono nuovamente; le voci, i lamenti al di là delle porte sono appena percettibili; il corridoio deforme ci conduce altrove, mentre udiamo passi in lontananza che si confondono con il battito del nostro cuore; affrettiamo il passo per lasciarci tutto alle spalle, ma man mano che proseguiamo lo scricchiolare degli strumenti del carnefice si fanno insopportabili, accompagnati dai sospiri e dal singhiozzare dei dannati, mentre lo spazio attorno a noi, per quello che possiamo percepire, si fa maggiormente angusto e claustrofobico. Pochi spiriti ribelli, impazziti di dolore, ci attraversano moribondi, un brusco rumore ci fa sussultare. Ci fermiamo davanti ad una porta: una donna che piange al di là della parete desta la nostra morbosità.
Speravamo che tutto fosse finito, invece...
Cella n. 8, "Unhealing Wounds", l'apoteosi: i sospiri dei malcapitati sono travolti da inesorabili ondate di rumore, mentre deflagranti percussioni si materializzano dal niente, scandendo possentemente, come da altri mondi, come dall'alto di un pulpito in cui un demone batte tibie e femori su tamburi di ossa e teschi, uno tsunami di agonia di immani proporzioni. L'azione del carnefice non ha qui niente di poetico e pittoresco, ma solo l'intelligenza perversa di infliggere la tortura più congeniale al malessere della sua vittima: parimenti, gli MZ.412, con la perfidia ed il calcolo maniacale che sono propri dei veri maestri del rumore, assestano colpi terribili ma perfettamente calibrati, tanto che quello che ascoltiamo possiamo ancora chiamarlo musica, e possiamo anche fruirlo a volumi esorbitanti senza rischiare né di morire né di ammazzare il nostro stereo.
Chiusa la porta, procediamo oltre, verso l'epilogo di questo oscuro viaggio d'iniziazione. "Mourning Star", altra traccia di poderoso dark-ambient, ci suona amica nello stemperare i toni dall'agonia alla semplice inquietudine, ma anche in questi pezzi, che meno ci sconvolgono, la tensione rimane alta. Soprattutto è importante apprezzare la cura del dettaglio (le voci, i passi, i più insignificanti movimenti che si compiono nell'oscurità), caratteristica che troviamo e ritroveremo in tutti i cinquantacinque minuti dell'opera.
"Infernal Affairs II", forte di orchestrazioni incalzanti e fiati solenni, è forse il pezzo più "dantesco" del lotto, capace di racchiudere nella sua pomposità marziale qualcosa di grandioso e monumentale, che fino ad adesso era stato sepolto dalla paura e dallo squallore da "clinica del Male" che ha permeato gli umori della nostra traversata.
Sarà perché sentiamo che ormai il viaggio sta giungendo al termine, sarà perché l'esperienza con i suoi traumi ci ha un po' vaccinati innanzi a cotanta sofferenza, ma il nostro sistema immunitario sembra reggere con maggior vigore innanzi agli ultimi assalti degli svedesi. "Postludiumh" chiude la nostra gita di (dis)piacere all'insegna della desolazione: storditi, proseguiamo nella speranza di poter imboccare, prima o poi, la via d'uscita. Un solenne vento cosmico accompagna i nostri ultimi passi, mentre i tocchi insensati di un pianoforte annegano in un pozza ribollente di melma nera. Davanti a noi: il buio. Ma siamo troppo stanchi per poter anche lontanamente ammettere che in fondo al tunnel non via sia l'agognata uscita.
Finalmente un po' d'aria e un po' di luce...
Oppure è solo una pia illusione che ci vien sadicamente concessa per rendere più micidiale il supplizio che ci attende al di là del buio?
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