Compulsando la mia agendina personale, dove tengo gli appunti dei film visti, dei libri letti, dei dischi ascoltati, ed altre considerazioni di varia natura, alla voce "Nanni Moretti-filmografia et similia" trovo annotate le seguenti considerazioni, datate alcuni anni addietro e mai riviste: "Film: "Io sono un autarchico": autarchico; "Ecce Bombo":  post-settantasette; "Sogni d'oro": non pervenuto; "Bianca": indigesto (Sacher+Nutellona); "La messa è finita": complesso di Edipo/Elettra; "Palombella rossa": autoreferenziale; "La cosa": boh; "Caro diario": Keith Jarrett; "Aprile": autoreferenziale al cubo; "La stanza del figlio": da evitare in famiglia (lutto analogo); "Il caimano", apocalittici e integrati".

Vi cito, per doverosa completezza, anche il "giudizio di sintesi" contenuto sempre nella mia agendina: "regista interessante ma: a) stile sempre incerto, drammatico nelle premesse, comico nella definizione di caratteri e personaggi, grottesco negli effetti anche a causa di una non sempre felice capacità di scegliere gli attori giusti (es. il padre ne "La messa è finita", gli amici in ep. 2 di "Caro diario", "Bianca", "Palombella"); b) eccessivamente innamorato di se stesso, tende a rovinare buone idee drammaturgiche ponendosi sempre al centro della scena (ego-centrico), che non sa tuttavia governare, fino al punto di trasformare il drammatico in comico e grottesco, forse oltre le intenzioni; c) non a caso i film migliori o i momenti migliori dei suoi film sono quando tace, o non si mette al centro come attore di un dramma: es. Caro diario, ep. 1, tutto "La stanza del figlio", e anche "Il caimano", dove recita nella parte di Berlusconi con autentico colpo di genio che rivaluta una carriera (nota affinità con Botero de "Il portaborse" in scena auto); d) eccessivamente ieratico, simile al giovane Battiato quando dice frasi importanti sapendo già che sono frasi che, per collocazione drammaturgica, diventano motti o luoghi comuni, rispetto ai quali è impossibile dissentire: da "faccio, cose, vedo gente", "mi si nota più se resto a casa", "le parole sono importanti", "continuiamo a farci del male", "dev'essere triste, morire senza figli", "Jennifer Beals!!", "io starò sempre dalla parte della minoranza". Esaspera, quindi, la funzione fàtica del linguaggio (se non sapete cos'è cercate su wiki), ossia non comunica nulla, perché l'ultimo dei suoi pensieri è comunicare con il mondo".

Già che ci sono - non preoccupatevi, fra un po' passo alla recensione vera e propria, ma se siete intelligenti avete capito che la premessa non è lunga proprio a caso - vi posto anche le "conclusioni finali" contenute nella medesima agendina: "regista che piace a chi: è nato attorno alla metà/fine anni '50 (come mia zia, classe '55, ma anche la zia piccola, classe ‘59!); ai figli di chi è nato alla fine degli anni '50 (come le mie cugine, classe '77 e '92, figlie della zia del ‘55 suddetta, c'è in mezzo mio cugino); è tendenzialmente di sx, del tipo "massimalista" (toh: come le mie zie!); ossia, stima(va) Massimo d'Alema negli anni '90 (ri-toh: come le mie zie! Mia cugina grande era per Bertinotti, quella giovane è per Vendola, che sono come i D'Alema degli anni '90, ieri ed oggi); va matto per Serena Dandini (ri-ri-toh: le mie zie seguivano già la "Tivvù delle ragazze", mia cugina grande "Avanzi", quella piccola "Parla con me"); traffica con cose tipo commercio solidale (mia cugina quando si è sposata mi ha regalato una candela presa al negozio sotto casa, devolvendo il prezzo della bomboniera in beneficenza: il peggio è che lo ha sottolineato e detto a tutti; noblesse), o con scarpe tipo Clarks, legge letteratura sudamericana o, ultimamente, mainstream chic edito soprattutto da Einaudi".

Secondo voi con chi sono andata al cinema a vedere "Habemus Papam?". Con mia zia, mia cugina giovane, e con l'ormai solita Simona, la quale, a propria volta, collima parzialmente con l'identikit di "morettiano-medio" che ho avuto la cura di delinearvi nelle righe che avete appena letto (al pari mio, non ama le Clarks; ma dissentiamo sull'alternativa: lei All Star, io Vans. Oltre che su tutto il resto).

Orbene. Vi evito l'ennesima sintesi della trama del film, che potete leggere un po' ovunque (in pratica: prete in crisi di identità, come in "La messa", o, sul versante laico, "Palombella"... solo che questo prete è il Papa di fresca nomina; e sono guai), e passo direttamente all'analisi dei contenuti del film, su cui penso di avere delle cose intelligenti ed originali da dire, giustificando anche il sacrificio che avete fatto per arrivare a leggere fin qui le mie apparenti digressioni.

Dico apparenti, innanzitutto, perché Moretti ed il suo pubblico di affezionati un po' si assomigliano, e finiscono per coincidere, anche nelle piccole manie, fino ad essere appagati da film come questo: film ben fatto e ben girato (nulla da dire, e chi sono io per criticare Nanni Moretti? Mario Monicelli?), ma film che mi sembra, da un lato, meno originale di quanto non paia di primo acchito; dall'altro, meno riuscito degli ultimi film del regista romano, ossia quelli girati nell'ultimo decennio, in cui il nostro si era ritagliato più il ruolo del "Deus ex machina da presa" che del "Deus sic et simpliciter", come emergeva nei primi, presuntuosi, lavori di fine anni '70-anni ‘80.

Perché meno originale?

Qui la prendo un po' alla larga e vi richiamo alla memoria un film che difficilmente avrete visto, come "L'udienza" ('71) del maestro del vero grottesco all'italiana, Marco Ferreri; regista da cui dissento in ogni film e in ogni rigo di sceneggiatura, ma che in quel lontano lavoro (con protagonista un'incredibile Enzo Jannacci, contorniato da Claudia Cardinale, oltre che dalla solita compagnia di giro ferreriana, da Tognazzi a [toh!!!] Michel Piccoli nel ruolo di un giovane prete) seppe rappresentare al suo apice l'incomunicabilità del messaggio religioso e la lontananza della Chiesa-gerarchia dalla realtà, compreso Dio come Ente che è anche nella realtà, fino al punto di mostrarne l'assurdo, kafkiano (e Kafka è citato due volte da Jannacci per definire la sua situazione, di uomo in attesa eterna dell'udienza del Papa).

Ecco qui: Moretti rovescia (intenzionalmente?) Ferreri, e nel suo personale modo di intendere il grottesco, mi sembra quasi girare "L'udienza pt. 2", elevando il prete di quarant'anni fa a Papa odierno (ci sta), e rendendo l'udienza la normalità delle cose, fino al punto che il Papa chiede udienza (!) allo psicanalista, qui interpretato da Moretti in funzione antitetica allo Jannacci che fu.

L'assurdo non viene rivelato dall'assenza di spiegazioni e dalla inaccessibile forza dell'istituzione e degli uomini che ne fanno parte - come in Ferreri, più classico - ma dalla sovrabbondante ansia di chiarimento che pervade tutta la Curia fino al punto di chiedere l'intervento dello psicanalista Moretti, dall'esplicita debolezza dei Cardinali, visti nella loro umanità e nel loro infantilismo (psicofarmaci; scopa; pallavolo; quotazioni bookmaker, bomboloni, gita musei: avrete notato come Moretti abbia scelto alcuni caratteristi della commedia all'italiana, come Camillo Milli e Renato Scarpa, già visti nel ruolo di Barambani in "Fantozzi contro tutti" e dell'amico di Enzo in "Un sacco bello", quando vanno in Polonia), dal silenzio impregnato di panico dello stolido (ma grandissimo, qui come sempre) Michel Piccoli.

Cambiando l'ordine dei fattori, tuttavia, il prodotto finale non mi sembra diverso da quello di un Ferreri, visto che di questo film non possiamo dire - anche sforzandoci - più di quel che appare: la storia dell'inadeguatezza di un soggetto non pronto ad assumersi le responsabilità di cui è investito, che, per "viltade" o meno, compie una sorta di gran rifiuto alla Celestino V, il che non sembra configurare altro che un diverso modo di definire gli aspetti disumani/sovraumani/soverchianti del Potere, delle Istituzioni, della Società organizzata, e la dissoluzione dell'individuo di fronte a tutto ciò.

Che il potere non sia necessariamente la Chiesa, è diretto corollario delle premesse, nel senso che il film potrebbe essere interpretato, in chiave politica, come l'inettitudine alla leadership in un mondo in cui sembra che il leaderismo sia taumaturgico: ma anche in questo caso, ammessa la correttezza della riflessione, mi sembra difficile andare oltre essa, come avveniva, in fin dei conti, negli irrisolti finali de "La messa" o "Palombella".

Ebbene, a prescindere dalla palese anomalia ed inverosimiglianza della storia (non che il Papa possa rifiutare l'elezione, ma ciò avviene solitamente prima o nel Conclave, non certo a elezione avvenuta), mi chiedo - all'americana: -"what next"? - ossia a cosa conduce l'ennesima rivisitazione di queste tematiche? Le spiegazioni abbondano in rete, sui giornali, lo stesso Moretti in un'intervista alla mitica Luisella Costamagna e al bravo Luca Telese è rimasto sul vago; a me, con tutta la modestia possibile e senza mancare di rispetto a nessuno, sembra che in questo film le idee, pur buone nelle premesse, siano venute meno, per cui non posso che sintetizzare la cosa con la nota frase di Rossini: "c'è del bello e c'è del nuovo: ma tutto ciò che è bello non è nuovo, e tutto ciò che è nuovo non è bello".

Mi allaccio, infine, alle ragioni per le quali il film, mi sembra meno riuscito degli ultimi di Moretti (i già citati "La stanza" e "Il caimano"): il bello non è nuovo. Il bello è l'effetto straniante di vedere l'ennesima reincarnazione di Michele Apicella alle prese con i cardinali, e i rigidi meccanismi della Curia, che vengono divelti dall'intervento di un soggetto che nulla c'entra con il contesto. Molto bene, eppure è il leitmotiv di tanto cinema di Moretti, ma anche di Tati, e se vogliamo risalire ai modelli nobili pure di Charlot, Stanlio e Ollio e Buster Keaton.

Il nuovo non è bello: il tentativo di un cinema maturo, osando in grande e rappresentando nientemeno che il Vaticano, mi sembra riuscito a metà; ok la fotografia (Moretti si rivela capace, rispetto al passato, di governare anche le scene corali, e non solo i dialoghi/monologhi ombelicali che costituivano il suo marchio di fabbrica), ma decisamente ko l'effetto finale, che lascia il senso di un film sfilacciato a metà.

Vi faccio un esempio di come lo avrei girato io: stessa storia, ma girata solo in interni, eliminando lo psicanalista e facendo semmai fare a Moretti un cardinale giovane, o fargli ricoprire il ruolo di Jerzy Sthur (quello dei film di Kieslowski, ma Nanni non è Kieslowski), in cui Melvìlle (francese, gli accenti sono importanti) rifiuta, ma appena eletto, senza scatenare troppa canea. Di qui una riflessione sulla responsabilità o meno, sul carisma etc., che poteva effettivamente finire come finisce il film, avviando un nuovo conclave da cui nessuno viene eletto, e così via all'infinito... [un potere che non può, che entra in contraddizione con se stesso].

Tant'è. Scusate la lunghezza, ma questa recensione è anche uno sfogo. Dopo il film siamo andate a prendere un frappè, ma vi sembra che abbia potuto dire la mia? Tutto un "grande Nanni", "celibato preti", "papa donna", "giovanna d'arco", "racconto morale", "papa straniero per il pd", "ratzinger", "santo subito", "vaticano", "schiavi", "testamento biologico". La filosofia del budoir.

Io, mi guardavo la punta delle scarpe.

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