Questi dinosauri dell’hard rock sono ancora vivi e lottano insieme a noi, dopo quarantacinque anni. Tutto merito del loro bassista originario e unico, tal Pete Agnew, che ha la pelle dura e la voglia di suonare perenne, anche in questi tempi di penuria di sostenitori. I tre suoi compagni degli inizi son tutti passati all’altro mondo invece, due di essi piuttosto recentemente (2022) quando peraltro erano già ritirati dalle scene. Con un certo qual ritardo da questi recenti lutti appena citati, decido di celebrare la band scorrendo la loro discografia e soffermandomi un tantino sugli album ancora non recensiti su questo sito, e sono la maggioranza.
Questo è il lavoro di debutto: 1971. Vi sono già tutte le caratteristiche della musica dei Nazareth: hard rock certo non mollaccione ma neanche heavy, sempre con un occhio attento e vi siano delle melodie, variegato da diverse licenze verso ballate, country, progressivo, soul, blues, pompa orchestrale. Il tutto quasi sempre assai impersonale, se non fosse per l’ugola di carta vetrata, ma quella di grana grossa, del frontman Dan McCafferty il quale, per dire sarebbe venuto buono anche negli AC-DC. La diffusa musicalità però innaffia le composizioni e rende il gruppo ascoltabilissimo e “facile”: non vi è genio, ma generoso artigianato si, come no.
Tutti i brani hanno capacità di intrattenere, nessuno di rendersi memorabile. Forse però ce la fa “Morning Dew”, per due ragioni: primo, è cover di una lagna folk canadese di certo Bonnie Dobson, coverizzata da tanti per il suo mantra melodico con buone capacità di acchiappo dell’orecchio; secondo, il chitarrista Manny Charlton vi gioca a lungo con un grossolano ma incisivo eco stereo ribattuto, fraseggiando efficacemente e dilatando il brano fino ai sette minuti.
Non c’è solo hard rock, anzi il disco è fra i loro più variegati. C’è la finale “King Is Dead” rivestita dalla grande orchestra, la quale fa episodicamente scivolare i Nazareth in territorio art rock, con McCafferty che per l’occasione spegne la grattugia che ha in gola, denunciando però leggeri problemi d’intonazione. L’orchestra fa la voce grossa anche sulla lunga coda di “Red Light Lady”, ma la risultante è farraginosa, e poi di finaloni a’la “Hey Jude” ce ne sono stati di molto migliori.
Il boogie “Dear John”, a suo tempo scelto come singolo, è l’episodio più noto, con regolare presenza di un pianetto rock’n’roll (un ospite) e soprattutto un buon “gancio” nel ritornello (la frase “I wanna be your man…”). “I Had a Dream” a contrasto è resa liturgica dall’organo da chiesa, la canzone è semplice ma la melodia è impeccabilmente sostanziosa.
Sempre bello ripercorrere certi passi della musica anni settanta, buttando un occhio alla copertina con i musicisti tutti vivi, giovani, zazzeruti, colla faccia da duri oppure no. Il bassista superstite è quello a destra, ora pelato come una boccia di bowling. Dio lo benedica, ancora sul palco a sfondar timpani a quasi ottant’anni. La ciccia accumulata in mezza età ora se n’è andata e Agnew sta più secco di quando aveva 25 anni. Bravo!
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