Qualche giorno addietro non riuscii a fare a meno di leggere la recensione del nuovo ciddì di tale signor Jovanotti, da tutti i minorati mentali considerato il Tiziano Terzani della musica italiana.
In quella ardimentosa recensione cercai quanto più possibile a riguardo della singolarità delle metamorfosi artistiche, delle alchimie che trasformano - pur senza migliorarne la qualità - un deficiente che non prende nulla sul serio (se stesso in primis) in un altrettanto deficiente che prende tutto troppo sul serio, a cominciare proprio da se stesso e dalle proprie elucubrazioni sulla panica armonia e su di un futuro ecosostenibile, ecosopportabile od ecotrascurabile.
I processi di maturazione, più o meno felici, riusciti, od ancora studiati a tavolino, ovviamente, hanno coinvolto i personaggi più immaturi della scena musicale nostrana, i quali in larga parte, è doveroso dirlo, sono tutti brevetti cecchettiani, come il Francesco che di recente cercò il "Vivere Normale", il tarro di periferia Max che, dopo due dischi di gratuite parolacce in milanese, cercò la rivirgination tagliando fuori un (ottimo, visto quel che passa in televisione!) ballerino, senza dubbio alcuno il più talentuoso del duo.
I primi tentativi di cambio direzionale, si sa, lasciano spiazzato e colgono impreparata l'audience: gli adulti ti guardano col sospetto di sempre, e non credono che tu sia sincero; i pischelli o le fans brufolose, al contempo, non ti riconoscono più a causa del cambiamento di standards.
Alle volte il detto "chi la dura la vince" funziona, e tale Jovanotti è presto ritornato ad incontrare i favori del pubblico. Altre volte, invece, la crescita porta all'oblio...
Nel 1990, mentre tale Jovanotti cominciava a mescere alla solita spensieratezza un po' di ridondante e retorica nonché superperbenista riflessività nel disco "Giovani Jovanotti", non erano pochi i pupazzi del pop preconfezionato e da classifica, nazionali o internazionali, a cercare una seconda vita. I tentativi di ricostruzione dell'imene della credibilità furono i più svariati. Alcuni fecero scalpore e perciò riuscirono, altri furono buffi, disperati, improponibili.
Quello in esame in questa recensione, datato anch'esso 1990, fu al contempo ridicolo, disperato, improponibile e commuovente.
Ridicolo perché il belloccio col neo al punto giusto pare volesse prendere lezioni di stile dall'"avvinazzato" Mick Hucknall, non esattamente un bonazzo: "We Can Make It", "Agony And Ecstasy", "You Are" ed il suo discreto groove, cosiccome "I Want More" sono infatti in pieno stile funkysoul bianco e britannico.
Disperato per gli stessi motivi: i Simply Red erano il meglio in giro sul fronte funkysoul bianco e prettamente da classifica, e rifarsi ad essi, considerato che Kamen non sa neppure cantare, è un suicidio.
Improponibile perché, tra tutti i pupazzi di quel periodo, Nick Kamen, un Elvis gentile un neo, un naso da infante, una tonnellata di gel, un ciuffo anni '50 non esasperato, un culo da pubblicità ed un paio di Levi's, è stato il più pupazzo dei pupazzi, quello che più di tutti ha fatto perno sulla sua immagine. E' probabile che in lui neppure una ragazzina (e neppure Madonna, credo) si sia soffermata su di lui per esaminarne lo spessore artistico.
Infine, un tentativo commuovente, per chi ha distacco sufficiente per rifletterci a mente fredda, poiché commuovente fu notare un cantante finito provare in ogni modo disponibile (pochi, a dir la verità) a sfuggire al suo destino, cimentandosi nel palloso gospel di "Oph How Happy", con il cool jazz moderno e metropolitano della titletrack, o con la mielosissima "I Promise Myself", tutta buoni sentimenti, chitarra acustica ed assonanze con una celebre canzone di John Lennon.
"Move Until We Fly" otterrà successo solamente qui in Italia, purtroppo per ragioni sociologiche che non sto qui a motivare roccaforte di tutto ciò che si propone d'ottenere successo perché giovane, bello, maschio e riffiano. Il resto del pianeta stronca il cocco della Ciccone, invitandolo a desistere dal ritentarci. Cosa che farà puntualmente, salvo quindi rendersi finalmente conto di essere improponibile, disperato, ridicolo senza più commuovere neppure i più sensibili.
Visto quanti ottimi artisti passarono in cavalleria perché all'altare di quella decade di mercimonio e consumismo furono sacrificati, è un bene che gente come Kamen si sia dedicata ad altro nella vita. Peccato solo che non furono tutti a sparire.Carico i commenti... con calma