È come il piano sequenza iniziale de "I Protagonisti" di Altman dove ogni personaggio - foss'anche per pochi istanti - riusciva a catturare l'attenzione per quel qualcosa di caratterizzante dato a lui solo.
Come passeggiare per una città sconosciuta ed essere rapiti ora da un profumo, ora da una vetrina, ora da un muro di cinta, ora dalla facciata di una chiesa; e poi da un idioma bizzarro, dalla prospettiva che si allarga, dalle carnagioni che si addensano, dalle nuvole che si diradano.
Ogni particolare, ogni gesto, ogni vestito, ogni sasso è necessario. Insostituibile. Netto.
E lo è proprio per il contributo che dà all'insieme.
Ci vuole il mestiere di un grande regista o il mood di una città particolarmente ammaliante perché le rifrazioni di ogni cosa risuonino in una partitura di scapigliata coerenza, di familiare straniamento, di disarticolato equilibrio.
Lo spazio è solo rumore tanto quanto il tempo di "Space is Only Noise" è scandito dai soli suoni. Suoni che - come il rumore - possono essere isolati ed etichettati, ma un bieco procedimento segmentizio non darà mai di questo disco - o dello spazio - un'idea precisa, non sarà mai una sineddoche soddisfacente.
È il sound di un alchimista post-moderno. Tramuta in percorsi imprevisti strade ampiamente battute, cava una downtempo-trance-space-dance sfumata al brandy dal martello di botte sintetiche d'antan, inchioda ad un loop destrutturato una pigra salmodia dagli angoli smussati.
Sono le dita esili, esangui e grigie di un vignettista alieno che tracciano misteriosi schizzi al pianoforte mentre spoken word campionati scorrono su uno schermo glitch definition. Diapositive delle umane cose commentate da un distanza siderale.
Ogni frame potrebbe essere in altri dischi, ma è solo qui che trova una collocazione altra.
È la tasca di Eta Beta da cui fuoriescono con facilità disarmante oggetti di ogni forma e dimensione. E dunque un indie-pop brumoso condotto da un baritono merrittiano è preceduto dall'evanesceza lunare di fascinazioni lounge. E uno spaccato glitch-hop da cui emerge la voce cristallina di un sax è seguito dalla desolazione senza fine di una ballad che dispera essa stessa della sua ragion d'essere.
Su tutto aleggia una specie di ambient-pop nebuloso. Qualcosa come una mestizia controllata, obliqua, remota dove anche brevi abbozzi minimalistici - piuttosto che meri intro o code di altri pezzi - sono tasselli fondamentali del continuum narrativo.
Sono le geniali folgorazioni di Pirandello che sfruttavano le potenzialità dell'in fieri per cui proprio il non-sviluppo del Giovinetto e della Bambina faceva da perfetto contrappeso alla ricchezza sottotestuale degli altri componenti della famiglia nei "Sei Personaggi in Cerca d'Autore".
È il disco d'esordio di Nicolas Jaar, producer e pianista cileno-americano cresciuto alla scuola micro-house di Ricardo Villalobos.
Una bella donna potrebbe attirare la nostra attenzione dovunque, ma se ce ne innamoriamo è proprio perché si trova in quel posto e in quel preciso momento, proprio perché è vestita in quel modo e non in un altro, proprio per quel particolare gesto che riverbera proprio quel cielo e quell'irripetibile istante della nostra vita.
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