I compulsatori di enciclopedie lo chiamano realismo magico.

Più semplicemente, lo si può chiamare Nicola Gogol’, figlio di Vasilij.

Non basterebbero tutte le copeche di San Pietroburgo per comperare un briciolo dell’immaginazione di Nikolaj Vasil'evič Gogol’.

C’è chi darebbe vitalizi di baccalà dissalati, storioni invassoiati con cornucopie di sottaceti, samovar d’argento, appartamenti arredati sulla Neva, indefinite pile di dolciumi portati in pompa magna da lacchè ammantati di vellutate livree bordeaux, ziette impomatate e costernate, buone solo a far da soprammobili, per avere un angolo di sottoveste da camera del vecchio Nicola.

Nulla da fare.

Solo suo, quel naso nella pagnotta del tosatore di bazze altezzose. Solo suo, il vivo sguardo del ritratto accatastato e ossessionante. Solo suo, il liso cappotto sotto cui, dicono, ha covato persino il fluviale Fëdor.

Il formicolare del Nevskij prospekt non è ritratto, ché ciò sarebbe poco; sarebbe morta lettera. Piuttosto, esso vive nelle sue pagine, respira nell’andirivieni degli occhi.

Poco importa sapere che tre dei cinque racconti provengono dalla raccolta Arabeschi, e che i Racconti di Pietroburgo sono una raccolta postuma. Poco importa sapere anche chi fu più grande: Alessandro Puškin, figlio di Sergej, oppure Nicola Gogol’, mastro rapitore di follie.

Oggi, mercoledì 26 agosto, il caldo non accenna a scemare.

Basta però affacciarsi al consunto libercolo, per farsi scaraventare nella tumultuante Neva, assieme al naso avvoltolato in una pezzuola dal barbiere, in quella vibrante mattina pietroburghese.

Basta un attimo e ci si ritrova, rattoppati, nell’ufficetto del mesto burocrate Akakij Akakijevic.

Scosso il nevischio dalle maniche, non faccio in tempo a chiedere un tè nero forte che già ho in bocca la zolletta.

Freddino oggi, nevvero nonnina Sonja Aleksandrovna?

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