WASHINGTON, 1970

Sono le quattro del mattino. Il regnante dell'Impero, Richard W. Nixon, sale i gradini del Lincoln Memorial fino a raggiungere la torreggiante biancastra statua di Abraham Lincoln. Una ragazza hippie che nel gigantesco tempio neogreco sta trascorrendo la notte, assieme a tanti altri giovani contestatori, si avvicina e lo affronta senza remore. Sue le parole che resteranno impresse nella mente del sovrano d'America: "È come un animale selvaggio".

"Che giova infatti all'uomo, se guadagna tutto il mondo e perde la propria anima?" Matteo 16,26

Parlare oggi di un'opera come quella che Oliver Stone ha coraggiosamente messo in scena in un momento, i primi anni Novanta, in cui lo strapotere americano già cominciava ad allontanarsi dal feroce suo tumultuoso e oscuro splendore, e un attimo prima che l'attentato più sanguinoso e spettacolare di tutti i tempi ne minasse irrimediabilmente le fondamenta, è forse il peggior modo di fare conti con una storia, quella occidentale, che sta avvitandosi su sé stessa in un terrificante gorgo irrazionale.

Mai davvero apprezzata, né dalla critica né dal pubblico, irragionevolmente comparata all'ormai classico "JFK - Un caso ancora aperto", l'allucinata e vertiginosa pellicola in cui Oliver Stone cesella il ritratto del più controverso protagonista della storia americana recente, oltre a rappresentare uno dei momenti cinematografici più importanti dell'ultimo Novecento, fornisce una insolita chiave di lettura ai pochi, purtroppo, temerari che s'interrogano sul destino di un mondo incendiato, in piena decadenza, affamato da un'orgiastica bramosia di saccheggi e baccanali, in cui l'unica preoccupazione sembra essere quella di salvare il salvabile non dell'anima, ma del proprio grottesco involucro.

A un estremo e raffinato Anthony Hopkins è affidato Richard Milhous Nixon, l'uomo davanti al politico, il marito e il padre ancora prima del presidente, in un'interpretazione straordinariamente perfetta, lucida e folle, controllata ed esasperata, folgorante personificazione del monarca di una nazione potentissima, un regno in disfacimento, che in quegli anni orientò il destino di milioni di uomini, mutando per sempre il corso dell'umanità. Perché sì, al di là del film in sé, il più grande merito di Oliver Stone consiste non tanto nell'aver scandagliato e ricostruito la storia di un personaggio discusso, dibattuto e contrastato come il 37° presidente degli Stati Uniti, ma di averlo fatto nell'unico modo possibile: narrandone le vicende come fossero soporiferi e fiammeggianti atti di un ultramoderno dramma shakesperiano, bagnato di sangue, follia e incubi. Cupa e distorta, frenetica e dilatata, offuscata e illuminata, sfocata e violentata dalla monumentale sinfonica potenza dell'inimitabile John Williams, l'atmosfera è quella di una sulfurea pièce teatrale recitata sul palcoscenico sconfinato del mondo reale.

A tale viscerale gigantesca trasposizione ha contribuito la scelta di un cast eccezionale, dal machiavellico Henri Kissinger di Paul Sorvino all'imponenza del generale Alexander Haig, impersonato da Powers Boothe, dal freddo e spietato Everett Howard Hunt di Ed Harris al sordido Edgar J. Hoover di Bob Hoskins, passando per James Woods fino a giungere alla magnifica esecuzione di Joan Allen, una Pat Nixon chirurgicamente estrapolata dalla verità.

Ma ciò che colpisce, perché rasenta, anzi soverchia, la cinematografia, è l'analisi del momento storico, il periodo più violento che l'umanità ricordi, quel XX secolo pugnalato da guerre, stermini e distruzione. Corre sul filo dell'arte, la settima, per toccare la carne viva della storia e divenire opera, vera e propria, non soltanto attività diretta a un fine ma anche, e innanzitutto, di carattere spirituale, morale. Doveva essere difficile anche solo pensare, se non impossibile, di raccontare il lato oscuro di un uomo come Richard Nixon, sospeso tra la grandezza e l'ignominia. Il senso di colpa per la morte dei fratelli, la lucida consapevolezza della propria condizione di origine. La gelida illusione e l'orgoglio infranto. Sapersi temuto, quando non odiato, mai amato, dagli americani, o a fatica, dalla moglie, in perenne attesa nel claustrofobico vestibolo del potere.

Si può definire, o perlomeno tentare di farlo, onestamente, senza pregiudizi di sorta, la figura di Richard W. Nixon in relazione al tellurico susseguirsi di eventi che ne hanno minato la lunga carriera politica, e al netto dell'efferatezza e della rabbiosa follia: una sorta di tiranno, più un despota che un presidente, ossessionato dal lavoro e da una insaziabile fame di potere. Ciononostante, una persona timida e sensibile, solitaria, introversa, che - proprio a detta del segretario di Stato Henri Kissinger - per fare politica ha dovuto agire contro la sua natura. Un contrasto interiore che lo ha portato a una scenografica caduta in disgrazia. È intorno allo scandalo Watergate che Oliver Stone edifica la sua pantagruelica esposizione biografica: un viaggio lisergico nella vita di un uomo che per tutti i 2.035 giorni di presidenza ha tenuto in pugno il mondo intero.

Un regista spregiudicato nei modi, nel pensiero e nella sostanza dell'arte sua, che sfugge a ogni categorizzazione ed è immune tanto agli standard quanto alle mode, che è allo stesso tempo autore e storico (confermando altresì il ruolo del cinema come valida ed efficace fonte divulgativa, accanto alla letteratura) è riuscito nell'ardua impresa di raccontare un personaggio difficile, nel pubblico e nel privato, avvalendosi del "mezzo" in ogni sua forma: immagini e filmati di repertorio, flashback, deliri introspettivi, visioni oniriche e tagli repentini che si avvicendano puntellando una struttura narrativa decisamente complessa e sofisticata.

L'arte del cinema. La spirale autodistruttiva dell'uomo più potente del mondo viene ripresa fotogramma dopo fotogramma: più di tre quarti del film si muovono nella cinetica delinquenziale del Watergate; l'intrigo di corte è totale, salta ogni legame giuridico, i limiti che separano i sotterranei della democrazia dal caos più selvaggio divengono irreali. A un passo dalla catastrofe, Richard W. Nixon si libera della corazza istituzionale, forgiata dai padri fondatori, e lascia agire l'uomo, nella più lugubre e belluina pazzia e nella più buia delle solitudini: "Un uomo non piange, e io non piango. Un uomo non piange, combatte". E, appena dopo, in una delle numerose sequenze consegnate alla leggenda, il primissimo piano, sudato e schizofrenico, in cui un Nixon impietoso, quasi giullaresco, si fa beffe di un'intera nazione minimizzando la portata dei suoi beni, la profanazione massima è compiuta, il grado più basso e infernale dell'anarchia del potere è raggiunto.

"Guardano te e si vedono come vorrebbero essere, guardano me e si vedono come sono" diceva, ai piedi di un ritratto di John Fitzgerald Kennedy, alla Casa Bianca. I contorni tra il sogno e l'incubo americano mai sono apparsi tanto sfumati come nell'attimo in cui uno stanco, sconfitto e lacerato Nixon si prostra dinanzi a un indecifrabile Kennedy.

Ed è così che il "mezzo" viene superato.

La gargantuesca messa in scena dell'incontro fra Nixon, Kissinger e Mao Tse-tung, l'agghiacciante e poetico monologo di guerra del Timoniere, le immagini sgranate del temporalesco bombardamento di Hanoi, l'incontro notturno tra il procuratore John Dean III e il sicario Howard Hunt, il cavallo imbizzarrito che si dimena nel ferroso verbo di Edgar Hoover. La frenetica escalation si consuma nella degenerazione ultima e irrisolvibile del giuramento fugace di Gerald Ford alla presidenza di una nazione che della democrazia è stata sia docile madre apprensiva che assassina spietata.

A scanso di un cerimonioso finale liberatorio, bagnato dalla speranza e la commozione di un coro di fanciulli, Oliver Stone ci lascia con una serie di enigmi che, diciassette anni dopo, non sappiamo ancora risolvere. Nonostante la diffusa congestione ai confini dell'impero e le gravissime corrosioni al suo interno, l'America non ha perduto il suo status di prima superpotenza globale, economica e militare, che domina incontrastata, ma la condizione generale è drammatica. L'occidente è un malato terminale in preda a convulsioni: a un anno dalla farsesca congiura di Capitol Hill, ultimo atto di una commedia patetica, indelebile contrassegno di un mandato presidenziale che a una dignitosa uscita di scena ha favorito la via del disonore, il cuore malato della democrazia non ha smesso ancora di pulsare, ma gli intervalli fra un battito e l'altro si fanno sempre più ampi.

Oggi, più che mai, avremmo bisogno di uomini come Oliver Stone e opere come NIXON.

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