Lopatin si vizia e si coccola, ma senza cullarsi, e quando esce dalla sua zona comoda è sempre per spostamenti essenziali, in punta di piedi, in auto elettrica, senza dar fastidio.
Troviamo i minimi elementi di novità nel primo disco (è un doppio LP): un inedito uso di drum machine, funzionale alla digestione nelle rotazioni elettroniche mainstream, obbligo di nobiltà da nome di punta della Warp a cavallo tra i decenni (dovrebbero averlo decretato le ultime, opache, elefantiache uscite a marchio Autechre); un timido approccio alla black music da classifica, finora fuori dal bianchissimo pantone di Lopatin.
Ecco No Nightmares, ballad notturna che sancisce il sodalizio con The Weeknd, gemello del destino, contraltare diegetico nel commento musicale al gioiellino Uncut Gems, che miagola suadente al vocoder una rassicurante e morbosa ninna nanna. Qui per la prima volta sul disco si erge la voce di Lopatin, echeggianti sovraincisioni di synth Roland a mimare un soprano in vorticosa ascesa: il trademark. Settarismo di Oldani permettendo, la sentiremmo volentieri su The Vibe.
E I Don’t Love Me Anymore, un boom bap, episodio meno coerente ma non meno suggestivo del lotto, a scavalcare il secolo per portare il fuoco della malinconia agli anni Duemila (chi dice di sentirci i Salem, chi addirittura gli MGMT, chi i Crystal Castles), salvo destabilizzare con le dissonanze microtonali di una memoria che distorce, sempre commossa. A temperare gli spunti inediti concorrono le solite particelle orientaleggianti, postumi di una mai smaltita scuffia di Sakamoto.
La cifra resta tutto sommato invariata, intatta la poetica dei frammenti di suono a erigere strutture spigolose e cristalline, eterotopie aventi materiali di scarto per muri portanti. Così l’immancabile Eccojam suona come ci si aspetterebbe dall’ennesima variazione sul tema mare e delfini a 16bit del Sega Genesis, e il secondo disco, espletati i doveri da superstar dell’elettronica lirica, si muove agilmente come Ecco in un mare di significanti destrutturati: il suo mare, i soliti significanti, le solite destrutturazioni. Lost But Never Alone precipita le distopie alla Carpenter in abissi di pacchianità epici per quanto sono fondi (l’assolo di chitarra è una chicca da benda sull’occhio); Tales From The Trash Stratum riprende il filo del discorso sullo skit virtuoso, lo skit assurto a forma canzone, a forma d’arte; Imago e The Whether Channel alimentano il culto del lo-fi per le nuove generazioni da canale Youtube 24h relaxing beat for studying, ma lo storpiano a mandate di rumore bianco con spietato realismo, liberandolo da qualsiasi possibilità di applicazione; Wave Idea è l’ambient secondo Lopatin: un luogo inaccessibile di orologi a cucù, uccellini che cantano e flauti, perturbato da scariche elettriche e plastiche ecoinsostenibili.
Per Magic OPN il pretesto narrativo è una sessione d’ascolto di una radio analogica, con le sue interferenze, i suoi jingle, l’applicazione sonora al potere. Un espediente vecchio almeno quanto End Of The Century, che Lopatin rielabora con un gioco di livelli di realtà e di focalizzazioni che riposizionano l’ascoltatore e la radio con piglio cubista: ci si renderà conto di aver ascoltato contemporaneamente la trasmissione, la produzione, il contesto sonoro che contiene la trasmissione, quello che contiene la produzione, e di essersi a malapena accorti degli spostamenti da punto a punto nell’universo, tanto è sottile e raffinata la tecnica delocalizzante, ormai prassi.
Un disco di conferma più che di transizione. Senza i picchi nervosi di Garden Of Delete, senza le folgorazioni di R Plus Seven (ma si segnala la pornogenesi della pandemia sul video di Long Road Home), o i virtuosismi di Age Of, ma con una sensibilità pop in potenziale che desta curiosità per il futuro.
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