Ridetene pure ora che è vecchia, ora che la chirurgia estetica facciale provoca cedimenti senza pietà sul suo viso, alternando rughe profonde ed impietose a gote lisce e lucide e labbra gonfie e tumide da pornostar, in maniera del tutto innaturale e leggermente inquietante. Propriamente bella non lo è mai stata, l'Ornella, col suo viso allungato e la bocca larga a darle un aspetto vagamente equino e la sua capigliatura ribelle che, lontano dai parrucchieri, si liberava di ogni giogo ricciolandosi per ogni dove sulle sue spalle magre. Il tutto a contrastare un incedere tra il nobilmente altezzoso ed il vezzosamente sensuale quale tra le chanteuses italiane della sua epoca non si trovava a cercarlo col lanternino.
La voce, poi. Si ha un bel dire che non stiamo trattando della più grande cantante italiana, ruolo che la sua corregionale Mina Mazzini le ha sempre, vox populi, soffiato. Più potente e stentorea la voce di quest'ultima, anche se alla Nostra dobbiamo riconoscere maggior versatilità e capacità d'adattamento a diversi generi. Direte certo che Mina ha solcato molti più mari stilistici di Ornella, misurandosi con generi d'ogni tipo, e ciò risponde a verità, ma è una questione di modi e maniere, non sono sottigliezze. Obietterò soltanto che alla quantità di dischi ed alla copia di stili che la Cremonese ha assaggiato e proposto l'Ornellona ha contrapposto sempre una maggior severità nella scelta del repertorio senza voler strafare o seguire nell'impeto gigionesco la Collega ansiosa di dimostrare l'universalità della sua voce. E per lo stile nel proporsi al pubblico, per quello, signore e signori, dobbiamo annotare molti punti a favore della signora Vanoni. Le altre colleghe fan cornice e lo sanno.
E siamo all'anno di grazia 1976, il quindicesimo della sua carriera discografica. Dopo quattro dischi in due anni, Ornella aspetta alla finestra.
Il grande produttore, scrittore, paroliere, traduttore dal francese e dal portoghese Sergio Bardotti sta cercando una cantante, non un cantante ma una donna, d'età matura e di grande esperienza, versatile ma con una personalità ben definita, disposta ad accompagnarlo in un progetto che covava da tempo, quello di tradurre brani di bossa-nova in italiano, e brani dei meno noti da noi, non certo i birignao da trenino della notte di Capodanno, insomma. Subito il pensiero va a Mina che rifiuta per timore di sconcertare il suo pubblico con un disco che veleggerebbe più verso il concept album che verso la semplice e remunerativa raccolta di canzoni con tre/quattro brani famosi ed il resto di contorno. Bardotti pensa ad Anna Identici, grande interprete oggi del tutto dimenticata, gran voce e presenza ma poco carisma, incline anche al canto politico. Poi a Milva la Rossa, che però alterna alla musica esperienze teatrali, specie in Germania, dove è adorata. Come loro altre rifiutano, in fondo la bossa nova è associata, e non a caso, al samba, ma in Italia, in Europa, dire samba è richiamare alla mente il Carnevale di Rio e la spensieratezza, mentre il genere, lo sapeva bene Sergione, era invece una sorta di blues brasileiro, incline agli accordi in minore e a testi riflessivi e malinconici, quale cantante di allora con un po' di senno si sarebbe buttata in un progetto del genere? E poi la bossa era considerata un languore passato, da ormai almeno dieci anni era finita l'epoca dei mostri del jazz che adottavano l'estetica Made In Brasil per rinnovare il loro repertorio... Il particolare decisivo sarebbe la compartecipazione al disco del grande paroliere, poeta, drammaturgo e scrittore, ex diplomatico brasiliano Vinicius de Moraes, molto sovente in Europa a causa di viaggi "tattici" al di fuori del suo Paese, costretto da una dittatura militare che fa dello slogan "Brasile, se non ti piace, vattene!" e dell'arroganza di decidere quale cultura portare alle élites borghesi e quale sottocultura infliggere alle classi lavoratrici il leitmotiv del momento. Già Veloso e Chico Buarque avevano scelto l'Europa per non sottostare agli arresti ed alle prepotenze anche fisiche della polizia e del governo, così Vinicius decide di allontanarsi per periodi sempre più lunghi, in aperto disaccordo col regime che, ricordandogli il suo passato di diplomatico, lo vorrebbe docile ai nuovi diktat, per convogliare le proposte culturali al popolo, si suppone, bue. De Moraes prende con sé il fido Toquinho e salpa per l'Europa, destinazione Roma, che conosceva bene da trent'anni almeno. Lì ritrova amici di vecchia data e Bardotti è tra essi: per il progetto il Poeta mette a disposizione alcune sue composizioni, con Bardotti che traduce ed evita accuratamente il già sentito ed il troppo conosciuto, selezionando dall'enorme catalogo del Poetinho una decina di brani che abbisognano di più di un ascolto per essere davvero apprezzati per quel che sono, tenui acquarelli impressionisti, spesso di sola voce e chitarra a cui il Bardotti avrebbe affiancato una sezione d'archi e fiati ed un coro italiani, tanto per attualizzare un po' il tutto.
Sezione ritmica essenziale, Mutinho alla batteria e Azeitona al basso, due sicurezze di asciuttezza e modernità nella tradizione, capaci di far sembrare semplici ritmi e passaggi invero complicatissimi ma perfettamente godibili da tutti.
Ornella, interrogata quasi per caso, accetta il progetto, tra l'incredulità dello staff bardottiano e le critiche dei giornalai musicali che non ritenevano la sua voce adatta alla bossa, troppo raffinata, le dicevano, per la bossa ci vuole una voce svagata, popolaresca nel senso buono (???), mentre lei faceva spallucce e pensava ad Elis Regina e a Maria Bethania, due voci così diverse tra loro ma entrambe protagoniste a pieno merito della scena MPB d'allora.
Dicevamo della chitarra, perdio, la chitarra. Signore e signori, parliamo di Antonio Pecci Filho, detto Toquinho, un percussore della chitarra brasiliana, un bossanovista puro ma più tecnico d'un Joāo Gilberto e più rigoroso di un Baden Powell, da tempo compositore di gran livello e parceiro artistico di Vinìa. A lui Bardotti affida il canto maschile, insomma, De Moraes è un grande ma non è mai stato esattamente un cantante, perde la nota, spesso non è intonato, le decine di sigarette e la boccia di whiskey giornaliere non contribuiscono certo a migliorare il tutto. Toqu ha una voce nasale ma non falla una nota, un'entrata, non fa quel che non sa fare, e musicalmente è una gran dote... E poi suona da dio, anche lui sembra saper semplificare e rendere accessibili a tutti cose dannatamente complicate e tecnicamente "alte".
La Vanoni studia, seriamente come sempre, i brani che le vengono proposti, e che brani!
In ottogiorni-otto i tre incidono i tredici-brani-tredici del progetto, una take per ogni canzone ed è fatta, poi gli archi e il coro sovraincisi, ma loro tre fanno tutto a-o vivo, sem medo, senza paura.
E a "Senza paura (Sem medo)" va il ruolo di apripista del disco, mid-tempo con Ornella e Toquinho che scandiscono bene le parole di un testo sulla fiducia nel futuro e l'inutilità dell'arrovello di fronte al destino, tipicamente brasiliano, come concetto... Ma è il secondo brano che svela l'adattamento della voce della Vanoni ai temi struggenti cari a Vinicius, l'assenza e l'abbandono. Qui Ornella sale in cattedra, Toquinho arpeggia sotto il suo canto e lei adatta lo standard ai suoi toni e rende suadenti il dolore e il pianto, così "La rosa spogliata" sarà una canzone sua, da adesso. Le corde vocali della Vanoni affondano coltellate nel cuore di chi ascolta, e rigirano la lama per esser certe di farlo sanguinare.
Chi ascolta si stupisce, Ornella è lei, sempre la stessa, ma è diversa, più grande, più matura, più completa.
Nel "Samba della Rosa" si agitano i fianchi, il ritmo corre e Ornella e Toqu cantano su una semplice base di basso, batteria e chitarra classica, una meraviglia di semplicità. Poi viene il "Samba in preludio", croce e delizia del repertorio delle cantanti brasiliane, già punto di forza di Odette Lara, ma i polsi ossuti di Ornella non tremano e, dopo la strofa di Vinicius, c'è lei che la piange, più che cantarla... Evitabile, poi, appare l'omaggio a Vinìa, "Anema e core" intesa come Samba di Napoli.
Il tormentone da classifica di "La voglia la pazzia", cover di "Se ela quisesse", dal repertorio minore dei due parceiros, è talmente noto a tutti che ne evito il commento.
Il lato B dell'LP annota una coppia di "brani a due", canti complicati dalle assonanze fonetiche, Bardotti è un drago a rendere in italiano il lessico brasileiro così ricco di colore e cantilene, e Ornella e Toquinho sembra abbiano sempre cantato insieme, sono naturalissimi in "Semaforo rosso (Sinhal fechado)" e "Un altro addio (Mais um adeus)".
Gli strumenti tacciono due volte , nella seconda facciata per lasciare spazio a De Moraes che declama due brevi poemi d'amore, per poi accogliere la voce vellutata di Ornella che tiene alla briglia le lacrime in "Accendi una luna nel cielo" prima di "Samba pra Vinicius" che Toquinho scrisse con Chico, anni prima, e che il Poeta adorna nella parte finale con il suo vecchio adagio "E' melhor ser alegre que ser triste, alegria é a melhor coisa que existe, é assim como a luz no coraçao, mas pra fazer um samba con beleza é preciso um bocado de tristeza, senão, não se faz um samba, não..."
Semplice, no?
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