La Gibson Les Paul Standard sfumata sunburst rifulge dalla copertina in tutte le sue fascinose forme e lucidature, inserita com’è in uno spazio astrale un po’ naif e tamarro mentre che si appresta a un improbabile rendez vouz galattico col teschio di un bighorn, assurto a simbolo di questa formazione della Florida sin dall’album d’esordio e destinato a fare capolino un po’ in tutte le loro copertine.
Trattasi del sesto disco della formazione (1980), il quinto in studio, e le sensazioni continuano ad essere non molto buone nel senso che, come nel precedente album “Playin’ to Win”, il rubinetto della creatività appare piuttosto arrugginito, con il lavoro costituito per buona parte di calligrafiche composizioni di rock sudista, corrette e grintose ma sbiadite per quanto concerne melodie, progressioni armoniche, arrangiamenti, spunti chitarristici.
Ma i Fuorilegge, furbi, mettono una gran pezza alla situazione infilando in scaletta un paio di cover ad effetto. La prima è un super classico del country & western americano del dopoguerra, queela “Riders in the Sky” vero e proprio standard noto più o meno a tutti grazie al suo iconico “Yippie I oooh, yippie I ayeeee…” nel ritornello. Questa versione degli Outlaws ricalca lo stile originario con quel ritmo a galoppo che fa tanto cowboys e pistolettate, per poi dilungarsi in una confusionaria jam session finale a tempo accelerato e colle tre chitarre soliste ad alternarsi, senza troppo costrutto, al proscenio.
La seconda cover segue la stessa identica strategia, s’intitola “I Can’t Stop Loving You” ed è un celeberrimo successo degli anni cinquanta, una strascicata ballata romantica in qualche modo nelle orecchie di ognuno di noi.
Grazie a questi due colpi di ruffianeria, il disco si muove abbastanza bene in classifica, molto meglio del precedente “Playin’ to Win” e gli Outlaws ricominciano a respirare e a sviluppare la loro carriera.
Il resto della raccolta però, costituita da altri sei pezzi composti e rispettivamente cantati, due per uno, dai tre chitarristi in formazione, non è gran cosa. Al solito gli spunti melodici più ricchi vengono dal baffuto Billy Jones, voce tenorile e pulita e stile chitarristico rotondo e armonico. Il più ispido e aggressivo Hughie Thomasson trova invece modo di riciclare nuovamente la benedetta progressione armonica in mi minore di “Green Grass & High Tides”, stavolta in un numero a titolo “Angels Hide”. I due contributi del terzo axeman Freddie Salem al solito sono i più “pesanti”, ai confini con l’hard rock nudo e crudo. Poco che possa restare a lungo in testa, se non il ritornello di “Devil’s Road” ma solo perché è in parte ricalcato da una sua precedente canzone, quella “Fallin’ Rain” molto più riuscita e perla del disco precedente di cui già si accennava.
Outlaws sul mediocre all’affacciarsi degli anni ottanta quindi, in riferimento all’eccellente, imperdibile primo periodo costituito dai primi tre dischi in studio e dal trascinante doppio disco dal vivo. Tre stellette quest’album, con affetto.
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