Fra le tante caratteristiche che possono essere prese in considerazione per diversificare in quattro parole i gruppi rock americani da quelli inglesi, vi è ad esempio la tendenza oltre Atlantico ad una maggiore “democrazia” interna. Ovvero, se si parla di bande senza un vero e proprio frontman, anzi persino con più di due personaggi a comporre e cantare, si scopre che esse sono in genere made in USA.

Il genere southern rock poi, al pari forse del solo country rock, vanta una pletora di formazioni in cui sono in tanti ad alternarsi al proscenio, e in quest’ambito il quintetto degli Outlaws non faceva eccezione: tre chitarristi al lavoro e tutti ugualmente a cantare. Con ben diverse peculiarità fra l’altro, così che è relativamente facile distinguere la vena country dominante nelle composizioni del chitarrista di complemento Henry Paul, interpretate con voce calda e baritonale, rispetto all’ispirazione più aggressiva e veloce di Hughie Thomasson il solista più brillante e la voce più rauca e tesa, rispetto ancora allo stile rotondo e sognante dell’altro solista Billy Jones, in possesso di un’insolita voce acuta e sottile, modello Neil Young.

L’uso frequente dei cori nei ritornelli, la vena tutto sommato moderata sia di Paul che di Jones in quanto ad approccio con il rock, nonché la fenomenale agilità sulla Stratocaster di Thomasson, capace di affrontare con essa partiture quasi in stile bluegrass, hanno consentito l’accostamento di tale gruppo a realtà ultra melodiche tipo Eagles, ma gli Outlaws restano un gruppo autenticamente rock: è la sezione ritmica a far la differenza, insieme alla capacità di improvvisare sul palco.

Il disco in questione, secondo di carriera (1976), è consistente e piacevole sin dal coro a cappella che introduce il compatto pop rock “Breaker Breaker” di Thomasson e poi la successiva, immediata deviazione verso il country rock con una tipica ode ad uno dei suoi stati-culla in “South Carolina”, ovviamente scritta ed interpretata da Paul, per poi banalizzarsi un poco col primo, modesto contributo di Jones “Ain’t So Bad”.

A questo punto erompe l’unica cover in scaletta, l’up-tempo “Freeborn Man” del bluesman Mose Allison, un grande pianista e autore coverizzato pure da Yardbirds, Who, Van Morrison, Clash fra gli altri; è uno dei vertici dell’album, grazie al lungo intermezzo centrale introdotto da un drastico cambio di tempo, nel quale si sbizzarriscono a turno le ispirate soliste di Jones e Thomasson. I cinque minuti scarsi di questa versione di studio venivano per la cronaca sistematicamente raddoppiati dal vivo, dove si lasciava totale campo libero agli umori di serata.

La successiva “Girl From Ohio” è la cosa più country del lavoro e forse di tutta la carriera… il rock qui sparisce del tutto e la voce iper yankee di Henry Paul spopola senza ritegno. La canzone è molto bella, beninteso se non si ha idiosincrasia per il dondolante e strascicato stile melodico tipico di tale genere, così tanto radicato su larga parte degli Stati Uniti quanto poco esportabile nel resto del mondo.

L’album riprende vigore con un paio di episodi risoluti ed energici di Thomasson, a titolo “Lover Boy” e “Just for You”, per poi rarefarsi in maniera elegante e vagamente psichedelica col nuovo contributo di Billy Jones “Prisoner”, un pregevole episodio tutto giocato su accordi aperti, arpeggi bagnati di chorus, assoli d’atmosfera ed il canto serafico e flautato del suo autore.

Il gran finale, in tipico stile Southern, è per il tour de force chitarristico “Stick Around For Rock’n’Roll”, che risolve alla svelta la parte cantata per poi scatenarsi in una lunghissima coda strumentale nella quale le due chitarre soliste abbaiano convinte e coese, da sole in alternata o più spesso armonizzandosi insieme in trascinanti ed insistiti licks. Gli Outlaws erano soliti aprire i concerti con questo numero, ed era un fragoroso e spettacolare ingresso in scena.

I rimasugli di questa gloriosa formazione (una dozzina di dischi in carriera) ancora girano gli USA per i tipici concerti-nostalgia che tengono viva la fiamma al cospetto dei vecchi fans e di qualche nuovo, tardivo appassionato, coi soli Henry Paul ed il batterista Monte Yoho al loro posto, dato che sia Jones che Thomasson che il bassista Frank O’Keefe sono deceduti da tempo: il primo tragicamente suicida, il secondo per un attacco di cuore e l’ultimo per overdose.

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