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«L’apparecchio che veniva chiamato teleschermo [consisteva in] una palla di metallo oblunga, simile a uno specchio opaco, che faceva parte della superficie della parente: [lo] si poteva bensì abbassare ma non mai annullare del tutto […]. Il teleschermo riceveva e trasmetteva simultaneamente. Qualsiasi suono che W. avesse prodotto, al di sopra d’un sommesso bisbiglio, sarebbe stato colto: per tutto il tempo, inoltre, in cui egli fosse rimasto nel campo visivo comandato dalla placca di metallo, avrebbe potuto essere, oltre che udito, anche veduto […]. Si doveva vivere (o meglio si viveva, per un’abitudine che era diventata, infine, istinto) tenendo presente che qualsiasi suono sarebbe stato udito e che, a meno di essere al buio, ogni movimento sarebbe stato visto»
(G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano, 1976, pp. 26 e 27).
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