In quest’assurdità chiamata vita perdìo non scordiamoci di danzare!

Danziamo con il corpo, con la mente o con il cuore, danziamo da soli, con la nostra ombra o con la prima persona che ci capita a tiro, danziamo sui trampoli dell’amore, sulle macerie dei nostri progetti o sugli ostacoli che ci separano dalla Bellezza.

Danziamo sporchi o puliti, aggraziati o epilettici, a casaccio o controllati, bislacchi o eleganti. Danzare è ricerca di sé, delle cose che neanche sospettiamo di agognare, dei posti che presumiamo di non poter raggiungere.

Il topo che rovista nella spazzatura non cerca semplicemente il cibo, ma danza sul creato, esprime la sua gioia attraverso il movimento e non importa se tutto questo sfocerà in una ricompensa, danziamo senza sapere se domani vivremo ancora, danziamo senza sapere se troveremo mai il nostro pezzetto di formaggio, “Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti”.

Se poi faremo girare sul piatto “360 Business/360 Bypass”, beh... Danzeremo ancora meglio.

Mark Nelson, centro creativo dei Labradford, si divincola dalle delicate e rarefatte cartilagini esistenziali della sua band e vara il progetto Pan American: musica che fa danzare il corpo, la mente ed il cuore.

Sinuosa e felina dub notturna che si stiracchia su crepitii elettronici, che si arrota gli artigli sulle nervature di cortecce minimaliste e che segue il filo srotolato di gomitoli di un trip-hop dilatato.

Danze condotte dai risonanti e rotondi palpiti di un ovattato cuore techno che pompa il ritmo nelle arterie di synths ossessivi e che smuove le membra a dispetto dell’impassibilità di contrappunti elettronici più acuti, la fredda luce delle stelle sorride sardonica dei nostri corpi.

E’ come se i deliqui al neon dei Massive Attack venissero tirati da due lati e formassero una pista da ballo in cui soli, nudi e sregolati, ballassimo in una martellante cadenza al chiaro di luna dove, di tanto in tanto, si insinuano sfrigolii concreti e dissonanti clarinetti che creano territori sonori che lambiscono quelli di un Vladislav Delay.

Anche nei momenti più squisitamente trip-hop, è come se l’atmosfera degli eleganti night-club esalata dai Portishead non fosse esterna a noi, ma piuttosto si trasformasse in una vibrazione sottocutanea.

Nelle variazioni più astratte, pare di sentire le asettiche colate di schegge microtonali di un Richard Chartier fuse e riscaldate dalle fiamme di un’elettronica pulsante ed ansante.

E il pezzo finale è sornione e indolente come un gatto che si rosoli ai raggi del sole e che si trastulli con le foglie che gli svolazzano accanto: meraviglioso ibrido tra dub e jazz, meravigliosi e flessuosi movimenti che paiono una danza senza tempo, senza scopo, senza ritorno.

E allora danziamo perdìo! Che tutta l’umanità danzi all’unisono e sconvolga la Terra, che ne cambi l’inclinazione dell’asse e che ne capovolga i Poli! Che l’umanità s’innalzi fino al cielo, che ribalti il mito della Torre di Babele! Tutti alla fine parleremo un solo linguaggio, quello dei nostri corpi che si muovono!

E se oltre il cielo troveremo quel sadico torturatore chiamato Dio, facciamogli vedere chi siamo! Tiriamogli quella barba inzaccherata dalla poltiglia dei martiri! Rasiamogli quei capelli incrostati dal sangue di tutte le preghiere mai dette! Sputiamo in faccia al quel suo viso avvinazzato di tiranno demente! Accerchiamo quel divoratore d’uomini! Additiamolo, oltraggiamolo, bestemmiamolo!

E prendendo il respiro più profondo che abbiamo mai preso, vomitiamogli in faccia tutto il disprezzo, tutto l’orgoglio, tutta la disperazione che abbiamo in corpo e urliamogli…

… “Padre nostro che sei nei cieli, RESTACI!”…

… … … … … …

… … … … … …

… “E noi resteremo sulla Terra, che qualche volta è così bella”…

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