Un uomo.
Un uomo su una bicicletta.
Un uomo su una bicicletta che corre.
Un uomo su una bicicletta che corre senza fermarsi mai.
Un uomo su una bicicletta che corre senza fermarsi mai, mentre sullo sfondo, frenetici, si succedono paesaggi, momenti, sensazioni, nostalgie, racconti, visioni. Tutti più veloci del ciclista, che pure ha esordito a quindici anni e vinto un Giro di Lombardia, tre Giri del Piemonte e una Milano-Torino.
Anzi, a guardarlo meglio, forse quell'uomo in bicicletta è fermo. È il paesaggio intorno a lui, che scorre davanti ai nostri occhi, in un valzer di vento e di paglia che sembra non voler finire mai.
E poi le cose che sanno tutti.
Che quell'uomo, durante una gara, piombò nel bel mezzo d'una processione e il parroco, a quell'empia scorreria, proruppe in un "Chi a l'é cul lì? Ël Diav?! " (Chi è quello lì, il diavolo?!).
Che quell'uomo era talmente veloce da potersi permettere una sosta al bar ("Vieni qui con noi a bere un'aranciata").
Che quell'uomo al Giro d'Italia venne squalificato perché sorpreso a farsi trainare da un sidecar.
Che quell'uomo, a 47 anni, fu invitato dall'organizzazione dello stesso Giro d'Italia, divenendone così il più vecchio partecipante di tutti i tempi. Record tuttora imbattuto.
Quell'uomo è Giovanni Gerbi e quel paesaggio sono le Langhe.
Le Langhe, secondo la laconica definizione di Wikpedia, sarebbero "un territorio del Piemonte situato tra le province di Cuneo e Asti, confinanti con l'Astesana, il Monferrato e il Roero".
Per me, invece, che non sono certo un langhetto ma ho conosciuto Elvira - una deliziosa astigiana con la femminilità d'una discobola bielorussa e una forma d'acne davanti alla quale sarebbe stato colto da mancamenti anche il visagista di Cassano - le Langhe, dicevo, per me sono un luogo ideale dell'anima situato tra le province di Inconsistenza e Lontananza, confinanti con l'Attesa, la Tempra e il Senso di Inadeguatezza. Un posto in cui, come diceva Cesare, anche tu sei collina, e sentieri di sassi e gioco nei canneti, e conosci la vigna che di notte tace.
Eppure Elvira non mi ha mai parlato di Pavese. Molto più semplicemente, per me, Elvira era Pavese. Ed era Vittorio Alfieri, era Beppe Fenoglio, era Paolo Conte, era tutti i langhetti tutti, che avevo frequentato solo sulle pagine d'un libro o in una canzone. Elvira, tutte le mattine, al risveglio, ancora al caldo delle coperte, mi chiedeva "mi accompagni al lavoro, neh?". E io, incantato, la lasciavo davanti l'ingresso del "Beauty Center Sabrina". Però, se le chiedevi "cosa fai nella vita", Elvira non ti rispondeva "faccio l'estetista". No, troppo esplicito. Elvira ti diceva "mi occupo di estetica". E a distanza di tanti anni, confesso di non avere ancora capito se la sua mansione fosse lavorar di cesello sulle unghie incarnite di annoiate savoiarde o se, invece, conducendo una doppia vita, fosse titolare d'una cattedra di Filosofia dell'Arte presso l'Università di Gottinga. Di certo, lo avrebbe meritato. Perché è da lei, nei pochi mesi di frequentazione, che ho imparato tutto quello che so della bellezza di quei posti là.
Elvira, magari, mi parlava di epilazione permanente... E io ci vedevo Conte. Altre mi spiegava affascinata le tecniche della Nail Art... e io vi trovavo il realismo di Fenoglio. Altre ancora, in un incanto quasi estatico, mi metteva al corrente delle più moderne tecniche del Peeling... e io sentivo l'incedere rapsodico di Pavese (NdR questa l'ho copiata da Goffredo Fofi).
Ed è dalla cugina di Elvira che ho scoperto l'esistenza dell'altro Giovanni Gerbi, suo nonno: un partigiano quindicenne che, come il suo omonimo, attraversava le Langhe senza fermarsi mai. E ho capito che i due Giovanni Gerbi sono lo yin e lo yang di queste terre. Non c'è langhetto che non abbia almeno una bicicletta e un nonno partigiano.
Ho fatto due calcoli e, se si prendono per buone le dichiarazioni dei suoi abitanti, nel 1945, nelle Langhe, a fronte di ogni tedesco, c'erano non meno di dieci partigiani con 3.7 biciclette a testa, un contingente di 140.000 tra uomini e mezzi, che presumibilmente umiliò la Wehrmacht in ritirata, respingendola con gravissime perdite sino ai sobborghi di Monaco in uno scampanellio che a molti ricordò "Bicycle Race" dei Queen.
Ma torniamo al nostro, di Giovanni Gerbi.
Ché tutto intorno ormai sventola e danza.
Il Nostro va, come si dice, in fuga. Perché si sa: il ciclismo è come l'amore: vince chi fugge.
Anzi, no, ci siamo sbagliati un'altra volta. Lo abbiamo già detto. Lui è immobile. È il paesaggio che va in fuga. E con esso miraggi, illusioni, abbagli, voci dal sole e altre voci, da questa campagna altri abissi di luce.
E tutti dietro affannosamente a rincorrerlo, quel paesaggio, ciascuno come può, turbinando nel vortice dove spariscono i paesi e le città.
Quel paesaggio è lui, il signore coi baffi e i gesti da domatore, al cui cospetto danza una orchestra eccitata e ninfomane, chiusa nel golfo mistico, che ribolle di tempeste e libertà.
Voci dal sole e altre voci
da questa campagna altri abissi di luci
e di terra e di anima niente
più che il cavallo e il chinino
e voci e bisbigli d'albergo
amanti di pianura
regine di corriere e paracarri
la loro, la loro discrezione antica
è acqua e miele
Il primo che si stacca dal gruppo e prova a star dietro a quel paesaggio è un clarinettista, l'aria mansueta del gregario avvezzo a perdersi in una distesa di culi davanti a sé, o del curante che ti fa "Lei mi prende due compresse di Augmentin dopo i pasti".
E invece, placido placido, parte e ti fa sobbalzare sul divano, quando senti che attacca con l'incipit dell'Adagio della Terza di Brahms (Senti qua, al minuto 17:30...). Strabuzzi occhi e orecchie. "Che ci fa, il collerico amburghese, nelle Langhe,?" ti chiedi... Ci fa quello che ha sempre fatto: il gregario. L'eterno secondo, a mangiar la polvere di Beethoven, poi di Wagner, poi di Mahler. E lui, impassibile, fermo nel suo Classicismo, mentre attorno a lui, come al nostro Giovanni Gerbi, il mondo della musica macina e turbina.
E poi Brahms che scompare piano, annaspando, brancolando, mulinando nel gorgo dell'imponderabile apparire di un motivetto klezmer, come uno stronzo quando tiri lo sciacquone.
A chiudere, l'ultima manciata di pedalate: un richiamo lontano a un pezzo del 1920 della Original Dixieland Jass Band, quella "Palesteena", già di per sé ribollente rimandi klezmer.
Il medico condotto col clarinetto, paonazzo in viso, chiude quasi spaesato il suo tentativo, cercando incerto l'oggetto della sua riverenza, e ricade risucchiato dal gruppo.
Eppure solo, come soltanto il ciclismo sa farti sentire.
Se nel mio passo hai avvertito un'inquietudine
e un grande inchino,
ero vicino a una città lontana,
tutta di madreperla, argento, vento, ferro, fuoco,
e non trovavo qui nessuno per parlarne un poco.
Ma il "Viaggio d'inverno" del signore coi baffi non conosce soste, ed è il momento del signore con la fisarmonica, "Der Leiermann", l'uomo con l'organetto che ci racconta Schubert nell'ultimo Lied della sua Winterreise, quando cristallizza l'errare del Viandante in una raggelante staticità, in un disfacimento in cui sembrano perdersi ogni categoria di spazio e tempo. E tutto diventa paesaggio, appunto.
L'uomo con la fisarmonica, dopo una introduzione dal sapore tutto sommato classico, ha uno sguardo d'intesa con l'uomo con la chitarra.
Quei due sapevano a memoria dove volevano arrivare.
E arrivano a una modulazione da cui il paesaggio esce come dopo una tromba d'aria. L'uomo con l'organetto cade in quello che è con ogni evidenza uno stato di trance, l'orchestra a far da sottofondo a quel ch'è diventata una sorta di ridda, nel delirio di quei semplici e di quei soliti che arrivano fin là.
Il paesaggio danza sulle note dell'uomo con l'organetto, in un sabba notturno e campestre, al cui centro si avvicendano le Langhe, Stradella, Broni, Casteggio, Voghera, la Macondo di Marquez, la Mosca di Bulgakov, i Demoni di Dostoevskij, il Mefistofele di Boito, Pape Satàn Aleppe, padre Amorth, Giucas Casella che ipnotizza una gallina, Luca Giurato che cammina sui carboni ardenti...
Quella musica continuava, era una canzone che diceva e non diceva
L'orchestra si dondolava come un palmizio davanti a un mare venerato.
"E il resto del gruppo?" direte voi... I chitarristi un tutt'uno col soffitto e il pavimento, solo il batterista, nell'ombra, guardava con sguardi cattivi.
Già. I chitarristi...
Sarebbero tre, in effetti.
Ma solo uno è L'uomo Con La Chitarra. L'Alfa e l'Omega di questo inno al paesaggio, dalle cui dita prendono forma i primi e gli ultimi accordi. Tutto comincia con lui e tutto si chiude con lui, dopo dodici interminabili minuti in cui, senza andare in fuga, scala la cima di "Diavolo rosso", detta "Il Mont Ventoux dei chitarristi".
Al termine, in un rallentando che sa di fatica e di qualcosa che finalmente trova il suo compimento, lui, L'uomo Con La Chitarra non ha riverenze per l'uomo coi baffi, ma uno sguardo che invoca pietà, e che sembra dire "Paolo, Paolo... Perché mi perseguiti?".
E l'orchestra chiude sferragliando, come i treni quando arrivano in stazione, in uno sbuffo di vapore in cui tutto sembra essere stato un abbaglio e in cui tutti sembrano cantare verdianamente Signore, è stata una svista... Abbi un occhio di riguardo per il tuo chitarrista.
PS Ringrazio @lector, che non conosco. Ma che, con un suo commento, m'ha fatto venir voglia di ributtar giù qualcosa.
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