Felicità – oltre che “un bicchiere di vino con un panino” o “una canzone pazza che cantare mi fa” – è riaccompagnare a casa Giulia, tornare a casa alle due, sdraiarsi sul canapé e scoprire che su DeBaser nessuno ha recensito quest’album.

Roba da matti. Com’è possibile, ti chiedi.

Forse perché ha ragione Giulia, che dice che Paolo Conte gli [sic] mette tristezza. Dice che a lei, invece, “piace un sacco ascoltare Ligabue, piuttosto che Vasco Rossi, piuttosto che Biagio Antonacci”. A me, invece, mi mette tristezza questo cazzo di “piuttosto che” con valore disgiuntivo. Per essere precisi, mi mette una tristezza che neanche la verdura bollita, il circo e i Baustelle. Al limite tutti e tre insieme.

Ecco.

Forse vedere Francesco Bianconi mentre mangia una porzione di bietole scondite, assiso sugli spalti del Circo Medrano, può sperare di intaccare il senso di afflizione che evoca in me la locuzione “piuttosto che”". Resta il fatto che Giulia ha 22 anni. E tanti modi per farmi felice. Anzi, a pensarci bene, uno solo. Ma con trenta variazioni, che al confronto le Goldberg – non me ne volere, Sebastia’ - sembrano scritte da Tony Santagata. Giulia, per farla breve, è quel genere di donna a cui non si resiste. Se le chiedi: “Ma ti sembrava il caso di farti un tatuaggio lì?”, lei ti fa gli occhioni e ti risponde: “ma dài.. che c’è di male? E’ solo un tatuaggio sul collo”. E fa niente se è quello dell’utero… Eh?..

La recensione, dite?..

Eccola: Quest’album è una cosa così. Come un urlo. Come una liberazione. Come gridare “a me m’è sempre piaciuta la Motoguzzi!” a un raduno di harleisti. Come aprire una norcineria sulla Spianata delle Moschee.

Ecco cos’è, quest’album. E la recensione potrebbe dirsi bell’e conclusa. E chi vuol capire ha capito. Se non fosse che la domanda, alla fine, è sempre la stessa. E cioè: “Ma le recensioni, dio buono, si scrivono per quelli che già conoscono l’album o per chi non lo ha mai sentito?”. E la risposta, pure, è sempre la stessa: “Per i primi”. I secondi, l’album, lo ascoltino, eccheccazzo. Invece di star qui a ravanare su Internet. E poi, magari, se ne riparla assieme.

Cos’è quest’album, dicevamo. Cantare a squarciagola fermi a un semaforo, con quello dell’auto accanto che ti guarda con tanto d’occhi, portarla a pranzo in un ristorante in riva al mare con tovaglia a quadrettoni rossa e una brocca di vino bianco “fresco che va giù bene come questo cielo grande su noi”, traversare la pianura riaccompagnando in macchina la nostra donna che dorme dopo una serata in balera, farsi fotografare coi piccioni a piazza San Marco per far dispetto a nostra cugina “ch’è stata a Roma e ce lo fa pesar”, un’isola piena di palme e bambù dove “steso al sole ad asciugarmi il corpo e il viso, guardo in faccia il paradiso”, è una donna a cui “splende negli occhi la notte di tutta una vita passata a guardare le stelle lontano dal mare, e l’epoca mia, e la tua, e quella dei nonni dei nonni, vissuta negli anni a pensare a una giornata al mare tanto per non morire nelle ombre di un sogno, forse in una fotografia, lontani dal mare, con solo un geranio e un balcone”. E se non ce l’hai mai avuta, una donna così, a volertelo spiegare non saprei. “Che parlamo a fa’”, si direbbe a Roma. E’ l’album buono, insomma, per quando ti resta solo una gran voglia di fuga. E nessuna possibilità di comprare una vocale. Ecco, cos’è, quest’album, ridicevamo.

E’ anche il primo che si chiama “Paolo Conte”. E qui il discorso si fa serio. Dopo di questo (1974) ne verranno altri due (1975 e 1984). Conoscete altri cantanti che abbiano chiamato col proprio nome e cognome ben tre album? Ricorda chi, al telefono, scarabocchia in continuazione la propria firma… Paolo Conte, Paolo Conte, Paolo Conte… E’ uno dei motivi per cui amo pensare a lui come al “Sacerdote dell’inadeguatezza”. Altro che la “Unvollständigkeit“ cantata dagli Einstürzende Neubauten… La “Trilogia del Mocambo“ – che infatti ricorre solo nei tre album che hanno nome “Paolo Conte“ – è il più genuino inno al sentirsi inaccettati. Questo, è il vero “Cantore del Complesso d’Inferiorità”. Il “Teorico del Sentirsi Fuori Posto”. Quello che viene dalle brume della campagna astigiana e che “quando parli tu, è per giudicarmi e la mia disgrazia per rinfacciarmi”, che è “sempre stato ignorante […] e tu che hai studiato disprezzi il mio mondo e anche me”. Quello che, azzimato e con l’invito prontoin canna, si aggira per balere, dancing e altri luoghi danzerecci a caccia di qualche tardona (“Dice che il ballo sudamericano aiuti ad aprirsi” – “Sarà per questo che lo usi con le cozze?..”, sembra dirci l’astigiano). “

Finchè, al culmine dello straniamento, lo vediamo allontanarsi sudato dal centro della pista. E quando Califano chiosa con un “io t’ammollo… vado a porta’ le chiappe a ‘no sgabello”, lui prorompe in un: “Sì, sono sempre più distratto E anche più solo e finto E l’inquietudine e gli inchini Fan di me un orango Che si muove con la grazia Di chi non è convinto Che la Rumba sia soltanto Un’allegria del Tango”. E mentre Paolo è ancora lì, sbuffante e stravaccato su una di quelle sedie di plastica intrecciata, ci sembra di sentire avanzare il pianoforte sghembo alla Poulenc del pezzo cui il Nostro affida il delicatissimo compito di aprire quello che è probabilmente il suo album più vero, vale a dire “Questa sporca vita”. E lui parte serafico con: “Se non avessi questa vita, morirei”.

E tu già hai capito tutto. E non vedi l’ora d’ascoltare la seconda. Che, per inciso, è quel compendio dello stare a due che risponde al nome di “Sono qui con te sempre più solo”.

Sono qui con te, sempre più solo, sento crescere tutta l’estraneità di due messi lì, in un brutto tinello maròn, non parlo, no… scusa? Pardon…

Una “psicopatologia della coppia quotidiana”, si potrebbe dire. L’eterno dibattito del “Come si fa a far perdurare l’amore e la pace?”. Eccolo, il vero “Manuale di Armonia”. Altro che Schoenberg… Diceva mia nonna che la solitudine da soli è brutta, ma star soli in due manco si può descrivere, quant’è brutto. “Alone Together”, ha detto Chet Baker, che suonava bene la tromba, ma però mica le faceva, le patate al forno come mia nonna...

“Ma però”, tra l’altro lo diceva anche Wanda, il cui titolo per intiero, se non sbaglio, è: “Wanda (stai seria con la faccia)”. E Wanda, non si fosse chiamata Wanda, si sarebbe chiamata Marisa. Ed è quel genere di donna che, quando meno te l’aspetti, ti fa: “A che pensi?”. Poi a Wanda, come a Giulia e a Marisa, ci piace Ligabue. Ed è anche quel genere di donna che su Facebook posta “L’amica vera non è quella che ci regala una rosa, ma quella che ci aiuta a togliere le spine”. Robe così. E poi si clicca “mi piace” da sola. Eppure, cara Wanda, io sono un sempretriste ma mi piace di sorprendermi felice insieme a te.

E così, lasciatoci alla spalle un credibilissimo “Sindacato miliardari”, ci ritroviamo alle prese – invece che con una verde Milonga – con “La fisarmonica di Stradella”. "Cos’è la Pianura Padana Dalle sei in avanti? Una nebbia che sembra di essere Dentro a un bicchiere di acqua e anice, e già…" Tagliare in due la Bassa, riflettendo sul senso della vita, i massimi sistemi e sul perché, ziofa’, la propria donna si addormenti puntualmente in macchina dopo ogni ballo della domenica sera. E a noi tocca riaccompagnarla a casa, traversando Broni, Casteggio, Voghera. Un crocevia di pensieri e sensazioni che ha il nome argentino d’Oltrepò Pavese ed è un luogo dell’anima, prima ancora che geografico, o un luogo geometrico di punti equidistanti dall’asse in cui “tutte le armoniche di questa pianura son nate e qualcuno le suona così”. “Ma così come?”, dice. Così.

Così come rientra, Tua cugina Prima, dal suo viaggio a Roma: “sbottonandosi il paletot, tutto il viaggio raccontò… Quando descrisse anche il bidet, ci siam sentiti come due pezze da pie’”. E sembrano fare capolino i disegni milanesi del Gadda dell’Adalgisa, senza voler fare il sofisticato… E La ragazza fisarmonica, e Onda su Onda, e Lo scapolo. Mica cazzi. Per arrivare di volata a Una giornata al mare, vero e proprio prequel di “Genova per noi”. Noi, “che stiamo in fondo alla campagna e abbiamo il sole in piazza rare volte e il resto è pioggia che ci bagna. E’ Macaia, scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia”. Il sogno collettivo d’una generazione che si sente piccola piccola. Sono venuto a vedere quest’acqua e la gente che c’è […], cerco ragioni e motivi di questa vita ma l’epoca mia sembra fatta di poche ore.

Questo indiscutibile capolavoro della musica italiana si chiude così, con la Giarrettiera rosa, inno alla femminilità e al gioco. Quello di chi, come in un finale rossiniano, sembra ricordarci che la vita è una cosa meravigliosa.

Almeno finché t’è concesso di distinguerla dai fianchi.

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