Se per voi "sacerdotessa del rock" non è la solita stronza frase di rito appiccicata dal critico di turno, se c'è stato un giorno in cui avete pianto, urlato o ballato ascoltando la sua voce, se "Horses" è stato in grado di corrodervi il cuore irreparabilmente, se non siete rimasti delusi ascoltando "Trampin'", se per voi la cover deve essere un furto legittimo, se avete sempre creduto all'esistenza di un'altra America, se avete cantato a squarciagola almeno una volta nel cuore della notte "Because The Night", se in queste mie parole ritrovate almeno un piccolo o infinitesimale barlume di verità, beh... allora prendete questo disco ascoltatelo ed amatelo. Se invece tutto questo non vi basta, non vi interessa e volete annoiarvi sapendo di che si tratta veramente, continuate a leggere.
Patti Smith, la sacerdotessa del rock, torna in uno studio di incisione tre anni dopo il suo ultimo album, il discusso e per molti incerto "Trampin'" (per me bellissimo, importante e profondo, ma che importa). Riprendendo un progetto che aveva nel cassetto da quasi trent'anni e la bella abitudine di re-interpretare altri autori, stavolta Patti Smith sforna un disco integralmente costituito da cover. Dodici canzoni, "Twelve" appunto, filtrate attraverso la sua anima e che curiosamente spaziano tra gli estremi non solo temporali di Jimi Hendrix ("Are You Experienced?") e i Tears For Fears ("Everybody Wants To Rule The World"), scivolando su perle di eterna bellezza ora con delicatezza ("Helpless" di Neil Young), ora con emozione ("Pastime Paradise" di Stevie Wonder), non tralasciando chicche storiche ("Gimme Shelter" dei Rolling Stones, "Within You Without You" dei Beatles e "Soul Kitchen" dei Doors) ed apparenti quanto incantevoli stranezze ("Smells Like Teen Spirit" dei Nirvana), senza dimenticare la grandezza di autori come Bob Dylan ("Changing Of The Guards") e Paul Simon ("The Boy In The Bubble").
La sua voce, sempre vigorosa e seducente, in alcuni momenti sembra avere meno degli effettivi 60 anni di vita, mentre in altri mostra quella forza intensa, vera, autorevole che l’ha resa una delle icone femminili della musica rock. Oltre i fidati Lenny Kaye (chitarra), Jay Dee Daugherty (batteria) e Tony Shanahan (basso, tastiere) non mancano in questo disco importanti partners di rilievo artistico (Tom Verlaine, Rich Robinson dei Black Crowes, Flea dei Red Hot Chili Peppers, Giovanni Sollima) e familiare (i figli Jackson e Jesse Smith).
Ma questi sono solo dati, aridi dati che troverete ovunque. Non dappertutto, invece, troverete parole benevole per questo lavoro. Un album per me bello, semplice e affascinante, che difficilmente piacerà ai critici statici e stitici. Facile da criticare, perché non consente voli pindarici, digressioni ed analisi profonde. C'è infatti ben poco da dire sulla sua essenza: dodici belle canzoni e una voce senza tempo. Fine. Non c'è altro da dire e non c'è niente da capire.
Carico i commenti... con calma