1313 Mocking Bird Lane è l'indirizzo di una simpatica famigliola raccontata in una sit-com sul genere dei miei amatissimi Addams.
Il babbo è una specie di Frankenstein, la mamma una vampira, poi ci sono tutti gli altri: licantropi, freaks e via dicendo. Quella che vedete in copertina è la loro acconcia casetta, buffa e decadente il giusto e horror e psichedelica anzichenò.
La serie è andata in onda nei sessanta e quella copertina, così Rolandiana, riesce in un colpo solo ad omaggiare due stelle polari del nostro: il suo favoloso immaginario horror/fantastico e quegli strani anni dove probabilmente qualcuno aveva messo qualcosa nell'acqua.
...
Questa storia comincia nella campagna inglese dove troviamo, nei pressi di un fossato, un vagabondo che concede aria e riposo a quel che rimane dei propri piedi. Durante questa operazione egli rimugina rumorosamente e insieme contempla le scarpe che gli sono accanto. Quelle calzature, acquisite di recente, sono le migliori che abbia mai avuto, ma sono anche un filino troppo grandi. Così, paragonandole a quelle che aveva portato fino al giorno prima, comode, certo, ma dalla suola troppo esile, egli non sa decidere se sia peggio il disagio di una calzatura poco aderente o il fastidio dell'umidità in mezzo ai piedi. Essendo il nostro uomo un'anima vagante, la questione non è certo secondaria, con cosa si vaga, infatti, se non con i piedi e con le scarpe?
E' tempo però che le ciancie lascino campo all'azione, ecco allora che il nostro vagabondo sente una voce alle sue spalle, ma quella voce non ha un corpo che la accompagni. “Non preoccuparti, anche se non mi vedi sono qui”. Il vagabondo, certo di non essere ubriaco, o di non esserlo ancora, trasecola, illividisce, trema di paura, anche perché vede bene che li non c'è nessuno. La voce però insiste, “Ah, ma allora non mi credi! Chissà, forse un po' di sassate ti convinceranno”.
Quel che accade dopo è roba da rimanerci secchi: senza che nessuno le muova, le pietre si alzano da terra e fiondano addosso al povero vagabondo. “Mi credi adesso?”...
Spostiamoci ora nella stanza di un banbino che, a lume di candela e semimascosto dalle coperte, legge avidamente. Il libro è “L'uomo invisibile” di H. G. Wells e per lui è una specie di imprinting. Che bello seguire col fiato sospeso le peripezie di quella voce in perenne fuga da un mondo dove non trova posto se non lo spazio vuoto di chi non può esser visto.
Dopo l'incontro col buffo vagabondo, la fuga prosegue nella Londra vittoriana, il luogo dove tutto ha avuto inizio. Ecco che, dopo essersi rufugiata da un conoscente, quella voce rievoca il momento dell'esperimento.
Ecco che il corpo diventa prima trasparente come vetro, poi sfuggente come nebbia e infine una specie di niente che niente poi non è, visto che, se anche non si vede, continua imperterrito a sbattere contro il mondo.
Bene, la candela è quasi finita e si è fatto forse un po' troppo tardi. Il banbino finalmente chiude gli occhi.
E' il momento in cui i contenuti della realtà diventano prima trasparenti come vetro, poi sfuggenti come nebbia...
...
Paul Roland lo riconosci immediatamente, pochi secondi e sei dentro il suo mondo. Sarà quel suono cristallino e rifrangente, sarà quella voce un filino infantile e un filino di naso, una zia svaporata, fate conto, oppure una Mother Matilda deliziosamente snob.
Poi, oltre quel suono e oltre quel naseggiar pallido e assorto, c'è anche una sensazione molto macchina del tempo, che, si, saresti negli ottanta, ma sei anche nella Londra vittoriana e in quella dei sixties.
Insomma il Roland riesce ad essere doppiamente retrò e ti porta a spasso nella strana luminescenza di due sottilissimi strati di nebbia che si sovrappongono in un suo personalissimo AltroQuando.
Questa dolce stranezza muove da tre scintille apparse nel vario cielo tra fanciullezza e adolescenza, del resto è da bimbi e da ragazzini che diam forma a quel che saremo poi per sempre.
La prima scintilla apparenta sguardo d'infanzia e porte della percezione e si estrinseca nel volar via della realtà oggettiva, anche se non a seguito di volontà, ma come trascinati da chissà che. Sarebbe la vecchia faccenda dell'anima che se ne va in giro per conto suo senza chiedere permesso, ovvero quel fenomeno noto come esperienza extracorporea. A quanto pare il nostro l'avrebbe vissuto più volte in tenerissima età. Ecco, io sull'esoterico preferisco non metter becco, del resto che ne sa il becco di cose come queste?
Concedetemi però di volare con la la fantasia alla scarlattina infantile della zia Patti, chissà, forse anche in quel caso l'anima se ne è andata in giro libera e beata
Per la seconda scintilla occorre tornare nella stanza di quel bambino e a “L'uomo invisibile”. Beh, sempre seminascosto dalle coperte e sempre a lume di candela, quel banbino ha continuato a leggere, prima i fumetti horror americani, poi Lovencraft, Conan Doyle, M.R. James, Poe, addivenendo nel tempo a una vis immaginativa pullulante di licantropi, fantasmi, assassini, scienzati pazzi visti, o intravisti, in una dimensione tremula e oppiacea.
L'ultima scintilla è l'apparizione in tv del divino fanciullo Marc Bolan. Ma, attenzione, fatto salvo lo shock iniziale dovuto a quel boogie dotato di sovrannaturale leggerezza, sarà andando indietro all'epoca Tyrannosaurus che il nostro vedrà davvero la luce. Il suo disco da isola deserta è infatti ancor oggi “Unicorn”, ovvero l'album dove il primo e il secondo Bolan se la giocano fifty fifty. Li strega e fanciullo coesistono e si entra e si esce dal paradiso fricchettone passando e ripassando da quello glam.
Bene, una volta uniti tutti i puntini, non resta che aggiungere il passo sospeso di Syd, un filino di weird folk e magari anche una spolveratina di barocco e di dark. Otterremo così “Danse macabre” e “The cabinet of curiosites”, i suoi grandi capolavori degli ottanta.
Da allora a oggi, Paul Roland ha continuato a fare bellissimi dischi muovendosi all'interno della formula sopra descritta, privilegiando ora il lato folk pop, ora quello più barocco e classicheggiante. A volte ha esagerato con iper arrangiamenti e romanticherie varie perdendo, in parte, la vivificante freschezza che contraddistingue i suoi lavori migliori. Va però detto che, anche nei momenti meno ispirati, qualche canzone fantastica l'ha sempre piazzata.
Negli ultimi anni comunque il nostro è tormato a essere in forma straordinaria. Questo “1313 Mocking Bird Lane”, per dire, è uno zuccherino.Ti soffia addosso un paio di Roland ballads da urlo, un po' di quel pop che come minimo ti metti a svolazzare, qualche numero di rock sbilenco, robette psych traballanti e sospese.
E allora lode alle tastierine acide, al vibrafono virato fuzz, a Joe Strummer omaggiato in forma di canzoncina, a quella voce sempre sottilmente incongrua...
Quando poi si arriva a “Summer of Love”, definitiva dichiarazione d'amore ai sixties, beh, la candela è quasi finita e si è fatto forse un po' troppo tardi...
E mentre stiamo per chiudere gli occhi e i contenuti della realtà diventano prima trasparenti come vetro, poi sfuggenti come nebbia, ecco che una canzoncina stonata colora il primo sogno che arriva.
Ed è un bel sogno, cavolo...
Un bel sogno davvero...
Trallallà...
Carico i commenti... con calma